Nei territori londinesi del 1977 Don Letts occupava un avamposto strategico. Era il disc jockey al Roxy, il club che è stato il primo giro di boa per gran parte dei gruppi punk che stavano incendiando la città. Nei cento giorni di vita del Roxy, riempiva le serate alternando i primi dischi punk con una densa selezione di proposte di origine caraibica: “Io suonavo il mio dub tra concerti dei Clash, dei Damned, dei Buzzcocks, delle Slits, dei Generation X, dei Banshees e molti altri ancora”. Le due forme musicali, così diverse e distanti trovarono proprio lì uno spazio di incontro, destinato ad allargarsi e ad approfondirsi, come ricorda lo stesso Don Letts: “L’interazione culturale tra reggae e punk stava cominciando a lasciare il segno sui gruppi di entrambi gli schieramenti. Anche se il punk attinse dal reggae più di quanto il reggae facesse dal punk, il reggae ne beneficiò dal punto di vista della visibilità. Anche l’atteggiamento lo possono fare tutti funzionò alla grande da ambo le parti”. È quell’attitudine a “trasformare i problemi in risorse” che permeava fin dagli albori la cultura giamaicana, dal costruirsi da soli le chitarre con quello che c’era (Bob Marley per primo) all’autonomia sonora dei sound system, che ha generato l’intuizione alle fondamenta dell’idea punk del do it yourself. Privo per sua stessa ammissione di qualsivoglia talento musicale, Don Letts ha applicato quell’attitudine, dopo i giradischi del Roxy, in un campo altrettanto strategico, inventandosi regista e filmaker. Dietro la cinepresa non è stato soltanto un testimone oculare e a distanza ravvicinata dei fermenti punk, coltivando relazioni pericolose sia con i Clash che con Pistols (“Si dice sempre che i Pistols ti fanno venire voglia di sbattere la testa contro un muro mentre i Clash te ne spiegano il motivo”), ma ha coltivato, in tempi pionieristici, la sottile arte del videoclip, prima che cominciasse a fare danni alle immagini e alla musica. Il racconto di Don Letts è informale, colorito e diretto: “una sorta di storia orale”, come lo definisce David Nobakht, con cui l’ha scritto. Essendo “uno della tribù dispersa”, le sue gesta autobiografiche partono dalla ricerca di un’identità sfuggente, tra le lontane radici caraibiche e la nuova identità inglese, foriera di attriti e conflitti fino al Punky Reggae Party come Bob Marley, a modo suo, ha celebrato l’incrocio esplosivo tra Punk & Dread. Ad accomunare gli spiriti era l’insofferenza, ormai arrivata a una soglia non più tollerabile, verso la decadenza delle istituzioni, che impediva l’emergere (e spesso anche la semplice sopravvivenza) delle comunità di immigrati ed esuli, così come l’espressione delle sottoculture giovanili che ruotavano attorno alla musica. Le rivolte, ormai inevitabili, si identificarono per vie parallele nell’attrazione magnetica tra Punk & Dread, e se è vero che le due culture non si trasformarono mai in un ibrido e restarono identità ben distinte, le connessioni rimasero attive e vitali con Don Letts a interpretare l’ufficiale di collegamento tra le parti. Condividendo a lungo l’evolversi dei Clash (fino a far parte dei B.A.D. con Mick Jones), Don Letts ha colto il senso di quel momento quando ha detto: “Io provengo da un’epoca in cui si combatteva per qualcosa, invece di arrendersi davanti a tutto come oggi succede di continuo”. Lo scontro poi è mutato nella ricerca verso New York, l’Africa, l’hip-hop, gli incontri con Sun Ra e Gil Scott-Heron, seguendo una via che, dalla Londra in fiamme, si spalancava verso un mondo più colorato e rumoroso, ma Don Letts è rimasto il bricoleur lucido e appassionato che ha saputo incollare Punk & Dread nello stesso modo che i suoi amici, bianchi o neri che fossero, imparavano due o tre accordi e mettevano insieme un gruppo. Non è poco.
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