In uno dei tanti incontri che popolano L’ultimo sorriso, episodio centrale che illumina Il randagio e altri racconti, Sadeq Hedayat declina la sensazione “che la musica avesse conferito un’anima speciale alle immagini sul muro, che ora avevano preso vita”. Questo giocare con il chiaroscuro, che resta la sua dote principale e la cifra assoluta del suo capolavoro, La civetta cieca, si associa qui a una progenie di drammi umani. Sadeq Hedayat è un maestro nel dipanare gli equivoci che alimentano Vortice o Gerdab e Haji Morad, in cui i personaggi sono annodati da legami invisibili che inducono a eventi che pesano tragicamente sulla vita. Gli stessi protagonisti si muovono come spettri negli anfratti di quello che non viene detto. Ogni racconto ha un personaggio che deve affrontare il il sospetto, la vendetta, l’invidia (succede ad Abji Khanum), le faide (“Tutti a Shiraz sapevano che Dash Akol e Kaka Rostam erano così nemici che avrebbero sparato pure alle reciproche ombre”) e gli intrighi. I complotti politici che avvelenano L’ultimo sorriso, non sono meno di quelli sentimentali che poi vengono concentrati attorno alle formule del matrimonio dove l’ambiguità (maschile e femminile) ha modo di espandersi e di implodere. Esemplare, in questo senso, lo svolgimento di Muhallil o Il pluridivorziato, dove il ruolo di Robadeh, una sposa bambina, si fa via via imperioso e risolutivo. Nelle trame di Sadeq Hedayat le sorprese non mancano: quello che Il randagio e altri racconti condividono sono le atmosfere di un Iran preindustriale e cosmopolita, con la vita, privata e sociale, che si svolge tra il bazar e il quartiere, ma dove “non c’è più niente che sia benedetto dalla sorte”. Il tratto comune è un’estrema povertà, condensata nell’idea che “il nostro tempo è finito, come dicono le vecchie ciabatte, siamo vivi perché non abbiamo il sudario”. Una condizione vissuta con una dignità profonda, sorretta e articolata da una pletora di celebrazioni, riti e tradizioni. Una cultura risalente a “mille anni prima”, un retaggio solido e stratificato che è nello stesso tempo caposaldo e prigione, rifugio e castigo, tanto è vero che la scrittura di Sadeq Hedayat è permeata di proverbi e canzoni, è popolare e popolana nella rappresentazione ma anche estremamente raffinata, asciutta e rarefatta nel suo formularsi racconto dopo racconto. Con alcune eccezioni, che si svolgono altrove, rispetto all’Iran rurale e sperduto dei villaggi, come La bambola dietro la tenda, espressione simbolica e surreale di una condizione femminile tutta da esplorare e in cui “la vita stessa era illusoria, artificiale, priva di senso” e Il Don Giovanni di Karaj, testimonianza di un Capodanno danzante dove il protagonista scopre, già dal memorabile incipit, che “ci sono persone che diventano intime già dal primo incontro, o come dice il detto popolare, asola e bottone, e non si dimenticano più l’uno dell’altro fin dalla prima presentazione. Mentre altri, nonostante vengano presentati più volte e si incontrino spesso, si evitano accuratamente. Niente simpatia o compassione reciproca per loro. E se per caso si incrociano per strada, fingono di non essersi visti. Amicizia inspiegabile, inimicizia anche”. Ancora più estremo è Il randagio, una piccola parabola che vede un cane fuggire dal suo padrone, travolto dall’istinto, e finire in mezzo alla strada, con un’espressione emblematica e malinconica “qualcosa che si può cogliere solo nel muso di un cane randagio”. Manca un capitolo rispetto all’originale selezione che doveva comporre Il randagio e altri racconti perché Anna Vanzan, iranista e islamologa che già aveva tradotto La civetta cieca, è scomparsa alla fine del 2020 e qui, in perfetta simbiosi con le atmosfere di Sadeq Hedayat, insieme all’assenza si celebra il ricordo.
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