A differenza di The Dark Stuff, dove i protagonisti erano quelle rock’n’roll star che Nick Kent doveva inseguire per redarre le sue cronache dai territori di gloria e perdizione, in Apathy For The Devil, il soggetto principale è proprio lui. Sì, ci sono ancora gli incontri con David Bowie, Iggy Pop, Syd Barrett, l’epifania con Rolling Stones e così via, ma lo scandaglio del giornalista e dello scrittore affonda nell’autobiografia per raccontare la risalita dalle profondità della tossicodipendenza. Una cavalcata senza tregua a cui Nick Kent si dedica con passione e con molta sincerità: quasi una confessione che si snoda nei suoi trascorsi tra Londra, New York e Los Angeles, dove nuove ondate di stili musicali (e non solo) si succedono una dopo l’altra, con una visione particolare del momento: “Chi scriveva non osservava più pigramente i suoi oggetti da una distanza di sicurezza: era proprio lì nella mischia, a succhiare l’essenza di ciò che accadeva per poi rimodellarla in una forma d’arte personale”. Si susseguono la turbolenta relazione con Chrisse Hynde prima della formazione dei Pretenders, i Roxy Music e Brian Eno, Captain Beefheart e Marc Bolan, i Ramones ed Elvis Costello agli esordi. Il tutto immerso in un diluvio di sostanze di cui, per buona parte della sua vita, Nick Kent ha abusato arrivando a sopravvivere in infimi livelli di decadenza, che vengono riportati senza alcun sconto. Il quadro, per niente edificante, non impedisce a Nick Kent di cogliere o partecipare i principali stravolgimenti della musica che è chiamato ad affrontare. Entra, per un attimo fuggente, anche nei Sex Pistols, seguendo poi tutte le variazioni di tendenza di quegli anni dalla Londra dormiente a quella che viene svegliata dall’improvvisa scoperta che il Regno Unito è in preda all’anarchia. Nick Kent si lascia trascinare dagli eventi e il risultato è un grezzo memoir senza freni inibitori, che colleziona gli effetti deleteri dell’eroina e del metadone. In quelle condizioni è chiaro che per Nick Kent “la musica resta la sola chiave capace di aprire la porta sul passato in modo di cui mi possa fidare” ed è così che riesce comunque a superare le barriere e a raccontare molto di quello che è successo dietro le scene di Ziggy Stardust o dei New York Dolls, trucchi e costumi, di un’intera civiltà che, nella sua decadenza, ha raggiunta un’aura leggendaria. Nick Kent non fa nulla per sfatarla, ma si addentra senza (inutili) censure, sporcandosi le mani, e annotando tutto con uno stile scarno e tagliente, dato che “la realtà ha questa pessima abitudine, di irrompere all’improvviso e sgonfiare i nostri palloncini”. Nelle parti più torbide, Apathy For The Devil, pur contando qualche ripetizione, vive di pura adrenalina, che mette in risalto molti dei luoghi comuni dello stardom system, che peraltro Nick Kent vive da perfetto outsider, ma anche da acuto osservatore. Dentro un “vortice oscuro” riesce a sollevarsi mantenendo quel tanto di lucidità da ricordarsi gli anni dal 1970 al 1979: il resto l’ha lasciato volentieri ai posteri trattandosi di musica suonata da “gente con tagli di capelli assurdi chinata su tastiere con un sacco di fili e oscillatori di tono fai-da-te. Roba che suonava come un branco di oche che scoreggiano in una galleria del vento”. Il finale è traballante, forse perché la redenzione non è altrettanto affascinante della desolazione, ma Nick Kent non concede nulla né ai rimpianti né ai rimorsi, e si lascia alle spalle tutta un’era. Onesto.
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