Iconoclasta, irriverente, mai assoggettato, ribelle “pieno d’odio e di idee” e, in definitiva, sempre onesto e sincero, Shane McGowan resta uno splendido outsider, uno di quelli per cui si riesce ancora a sperare che ci sia un posto per i perdenti in questo mondo. Lui l’ha trovato, pur con tutti i guai, i conflitti e le peripezie di cui si è reso protagonista e che sono una componente ridondante nel libro costruito attorno al confronto con la compagna, e poi moglie, Victoria Mary Clarke. Una pinta con Shane McGowan è disordinato e divertente mentre riporta in presa diretta al bizzarro milieu del cantante dei Pogues, ma perde l’occasione di approfondire la sua poetica, e questo è probabilmente il limite maggiore, insieme a una certa autoindulgenza. Il racconto è spesso informale (anche troppo a volte, dove il dialogo tra i due diventa alticcio e un po’ banale), ma la condizione è quella fin dall’inizio, quando Shane McGowan narra l’infanzia in Irlanda e in particolare la vita in campagna, dove “il mio primo ricordo è di tutta la famiglia che costruisce un letto e non riesce a farlo passare dalla porta d’ingresso. Non siamo riusciti a farlo passare attraverso quella cazzo di porta. Quindi abbiamo dovuto smontarlo fuori e rimontarlo dentro casa”. Gli aneddoti si sprecano e forse andavano collocati in una trama più completa: a tratti l’impressione è quella di vedere e ascoltare una coppia litigiosa seduta al tavolo di un pub che discute allegramente dell’IRA e di James Joyce, dell’alcol e dei Faces, di Brendan Behan e di Elvis Costello (particolarmente maltratto da Shane McGowan). La ricostruzione è frizzante e caotica, senza filtri e il dialogo tra i due tende a essere esclusivo, per cui è necessario fare un po’ la tara a quello che si dicono. La parte più consistente ruota in gran parte attorno al periodo punk di Shane McGowan, con i Sex Pistols a turbare la quiete pubblica e a imporre gli stili e le mode del momento. Compreso il suo primo gruppo che si chiamava Nipple Erectors, gli erettori di capezzoli, così, tanto per gradire. Dalle risse all’abbigliamento, i dettagli si sprecano e sono fonte di battibecchi con Victoria Mary Clarke ed è con lo stesso spirito che Shane McGowan affronta i rapporti all’interno dei Pogues chiamati, non senza una buona dose d’ironia, “la democrazia”. Dal 1984 al 1991, è l’anima di una festa mobile dove la sua avversione per le regole, le imposizioni e i luoghi comuni è l’ingrediente più piccante. Sono i momenti in cui viene messo in risalto il carattere di Shane McGowan, che ha il pregio di difendere comunque l’autenticità contro la professionalità e, qui, nella faticosa convivenza con l’industria discografica, viene fuori di tutto, compresa la verità: “La gente ci entra pensando che sia qualcosa di artistico, e non lo è. È un’azienda. È solo una cazzo di industria, sai, proprio come qualsiasi altra. È come lanciare merda contro un muro e un po’ resta attaccata. Chi ne fa parte non sa cosa sta facendo, sai. Il music business racchiude probabilmente ogni cazzo di aspetto orribile delle altre industrie. Ha tutta la pubblicità, tutto il cazzo di clamore, tutta la cosa di venderti merda e profumarla di rose, di continuo”. Certo, rimane uno squarcio reale della vita di Shane McGowan, che forse avrebbe meritato un’organizzazione un po’ più accurata, ma l’imperfezione è parte del personaggio, che pure in questo caso si conferma libero e candido, fin troppo, as usual.
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