martedì 29 ottobre 2024

Wang Xiaobo

C’è stato un tempo, in Cina, in cui “le regole fondamentali erano: mai rifiutarsi di eseguire gli ordini e mai lamentarsi, nemmeno delle cose più insopportabili”. Non che sia cambiato un granché, ma la rocambolesca biografia di Wang Er attraversa la seconda metà del ventesimo secolo con la traiettoria di una bizzarra meteora. Wang Xiaobo riesce a decifrarla con grande ironia e anche con un bel coraggio nel sottolineare le astruse norme e l’atmosfera generale durante la Grande Rivoluzione Culturale quando “dappertutto c’erano altoparlanti che blateravano senza sosta, giorno e notte” e c’era una confusione sulle priorità perché “subordinare i principi secondari a quelli fondamentali significava non avere principi, subordinare i problemi piccoli a quelli più grandi equivaleva a confondere i termini della questione”. Quelli che vengono rievocati durante L’età dell’oro (nella traduzione di Alessandra Pezza e con la cura di Patrizia Liberati), “erano anche tempi in cui c’era un mucchio di carta straccia, e i ragazzini giravano a raccoglierla con dei carretti che si erano costruiti da soli, slittando per le strade che era una meraviglia. C’erano un sacco di pazzi lasciati a briglia sciolta che diventavano oggetto di ammirazione”, e forse in cima all’elenco va annoverato proprio Wang Er. È un outsider, e non tanto per questioni politiche, quanto per motivi caratteriali: non riesce a trovare una collocazione perché insegue il sesso come modulo di espressione, non asseconda i grandi passi in avanti né la dialettica del partito, le imposizioni della burocrazia o “il sostegno delle masse” convinto che “la vita è breve, e anch’io, come tutti, me la faccio andare bene così com’è”. Wang Er è un personaggio epocale, che sopporta punizioni e privazioni senza battere ciglio, ha un modus vivendi articolato attorno alle sue erezioni e un’indolenza non proprio patriottica, che ammette con grande candore quando dice che “i fili d’erba che crescono in primavera non hanno uno scopo. Lo stallone in calore che galoppa quando si alza il vento non ha uno scopo. L’erba cresce, lo stallone va in foia, ma non certo per noi. Questa è l’esistenza di per sé”. Le peripezie sentimentali ed erotiche coinvolgono una bella percentuale dell’altra metà del cielo: con Chen Qinyang, Campanellina ed Erniuz, la moglie che è un’atleta judoka, si rende protagonista di “una serie di spettacoli per cui due occhi non erano abbastanza” e che Wang Xiaobo mette in rilievo senza risparmiarsi, strappando spesso un sorriso, ma anche con un particolare spunto filosofico quando lo descrive così: “Se Cartesio fosse stato Wang Er, non avrebbe cogitato. Se Don Chisciotte fosse stato Wang Er, non avrebbe combattuto contro i mulini a vento. Se anche fosse arrivato a Rodi, come l’atleta spaccone di Esopo, Wang Er non avrebbe fatto nessun salto. Perché Wang Er non esiste. E non soltanto Wang Er, la maggior parte delle persone non esiste, e qui sta il nocciolo del problema”. Tra distruzione e costruzione, riforme e censure, “scorrono gli anni come acqua, e in un batter d’occhio sono giunto all’età delle certezze” ammette Wang Er, mai piegato o sconfitto, un individuo singolare ed eccentrico, che nasconde tutta una poetica in un paese in preda alla follia della razionalità, o qualcosa del genere. Ed è così poi che, se “i fatti dimostrano che la società, come una fornace, è in grado di temprare chiunque”, con le storie del signor He e di Akimoto Kandu, del signor Li e di Filetto, il tono agrodolce di Wang Xiaobo ci ricorda che “come una luna in cielo illumina il mondo senza distinzioni, così i mesi e gli anni scorrono per tutti, ma ognuno se li vive a modo suo” e Wang Er è ancora lì, pallido e assalito dai ricordi, ma ancora in piedi. Tanto basta, poi è vero che “nella vita si viaggia da soli, e per passare il tempo serve un buon libro” e L’età dell’oro è più che un ottimo candidato, perché di compagnia da scoprire e condividere, a partire dall’ineffabile Wang Er, ne offre un bel po’.

giovedì 24 ottobre 2024

David Thomson

Generation Kill è una serie della HBO che segue le gesta dei marines nella guerra in Iraq ed è molto efficace nella ricerca linguistica e nel modello delle immagini, tanto da rappresentare quasi una versione aumentata della realtà. Sarebbe stato interessante conoscere il parere di David Thomson a proposito, perché La fatale alleanza è un libro davvero scrupoloso che si addentra con grande coraggio e generosità nell’indagare “un secolo di guerre al cinema”. Un argomento difficile da seguire, spinoso, complesso e con cui confrontarsi perché “c’è qualcosa di naturale nella guerra. O che va oltre la ragione”, ed è qualcosa di cui ci sfugge ancora il senso, nonostante occupi il nostro immaginario. Non è soltanto il cinema, anche se dipendiamo da “un golpe cinematografico del combattimento” come lo chiama David Thomson, al punto che ormai “non possiamo fidarci al cento per cento di ciò che vediamo, perché la raffinatezza del cinema ha umiliato e ingannato le nostre tragedie”. Per arrivare a una conclusione così, è necessaria lunga dissertazione sugli effetti invasivi e pervasivi delle immagini belliche tenendo conto di un paio parametri insindacabili, ovvero considerando “il cinema nel suo complesso come luogo culturale, come pratica, linguaggio e modo di pensare” e, poi, che “la bellezza è una cosa complicata in un film”. Per cui “una fila di soldati eccitava Ėjzenštejn nello stesso modo in cui una giovane donna insolente eccitava Howard Hawks” e le reazioni ai primi venti minuti di Salvate il soldato Ryan o degli ultimi cinque di Black Hawk Down, per dire degli esempi più attendibili ed estremi, dipendono dal fatto che “le immagini reali continuano a essere divulgate, ma la nostra cultura è annoiata dalla loro facilità di fabbricazione”. Questo è un po’ il crinale su cui La fatale alleanza, e il titolo dice già tutto, rimane in equilibrio e, come spiega molto bene David Thomson, “è qui che risiede il grande fascino dei film e la loro capacità di rendere la guerra vivida ma lontana, eccitante ma libera da danni e morte”. È un lavoro enorme, da grande conoscitore delle strutture cinematografiche, ma anche espressione di una notevole sensibilità per farci capire che la guerra ci viene propinata come se fosse inevitabile, ed “è un vento che non soffia mai in una sola direzione” e quando diventa spettacolo implica diventare “complici, spettatori che giocano sporco guardando l’immediatezza da una distanza di sicurezza”. Davanti allo schermo succede qualcosa di più e La fatale alleanza è eccellente nel dimostrare, pellicola dopo pellicola, attore per attore, e assecondando la visione di ogni regista chiamato in causa, che “immaginare una guerra, o dieci minuti di battaglia, significa fare un enorme, immotivato salto di finzione. Ma adoriamo farlo”. Con le proprietà di una scrittura chiara, limpida, essenziale che riesce a dipanare concetti complessi con un tono spigliato, e a tratti condito persino da uno spiccato  sense of humour (e non era facile viste le materie), La fatale alleanza ha una sua vastità: percorre in sostanza tutta la storia del cinema e arriva ai nostri giorni, però è estremamente scorrevole perché non c’è nulla di intellettualoide o di specializzato anche rispetto alla forma d’arte cinematografica. È una dissertazione molto appassionata nel suo svolgersi e anche precisa con parecchi temi che il lettore potrà approfondire a parte e tra questi tanti libri, romanzi e saggi e poesie, perché è necessario un background di spessore per comprendere come “ciò che rende la guerra un’esperienza culturale così impegnativa è l’instabilità nella quale cerchiamo di rimanere noi stessi”. Questi sono i veri danni collaterali che La fatale alleanza mette in evidenza, chiamandoci in causa: “Dover recitare la parte di semplici spettatori con l’ordine di restare fermi o calmi è umiliante, oltre a essere l’espressione di un ulteriore impoverimento della nostra possibilità di essere persone reali”. Un corto circuito che in un episodio di Generation Kill si manifesta apertamente, quando un gruppo di marines riprende il bombardamento di un villaggio inerme esclamando, in coro: “È dannatamente reale”. Bellissimo e importante, La fatale alleanza riesce a mettere a fuoco quel tragico abbaglio, che ormai viviamo ogni giorno.

giovedì 10 ottobre 2024

William Dalrymple

L’etimologia del termine “loot” inteso bottino, risale ai tempi della Compagnia delle Indie Orientali (CIO) e non potrebbe essere diversamente. Per quasi due secoli una società privata ha saccheggiato le risorse del subcontinente indiano, spianando la strada all’imperialismo inglese, che poi avrebbe dominato fino al 1947. La storia è intricatissima: come un processo virulento la CIO si è intrufolata nelle ingarbugliate dinamiche della regione già a partire dal diciassettesimo secolo, prima come partner commerciale e poi come avamposto militare. Questa doppia e ambigua natura, di fatto una replica dell’apparato statale ma senza i contrappesi istituzionali, ha sconvolto a più riprese l’equilibrio fragile e cosmopolita dell’India. Come scrive William Dalrymple nell’introduzione: “Una società di capitali multinazionale era in procinto di trasformarsi in un’aggressiva potenza coloniale”. Le ataviche lotte per la conquista dei territori, dei tesori e soprattutto del gettito fiscale sono state l’humus perfetto per le intrusioni economiche e militari della CIO. William Dalrymple elenca campagne, battaglie, intrighi e congiure ,  rovesci, tradimenti e rivolte, massacri e carestie offrendo, grazie a un densissimo lavoro di ricerca, una ricostruzione fedele dei conflitti, una saga interminabile e sanguinosa che ha visto la CIO protagonista per la spregiudicatezza, il cinismo, l’avidità e la corruzione con cui si muoveva nell’intricato scacchiere indiano. Il racconto è avvincente, in tutta la gamma delle sfumature, dalle gesta bellica ai risvolti finanziari, William Dalrymple usa un tono quasi romanzesco per dipanare una realtà spinosa, a dir poco, ma alla fine è chiaro e impietoso: quando la CIO, “una società mercantile acquisì per la prima volta un potere politico reale e tangibile”, si dimostrerà una struttura fuori controllo che fomentava guerre, finanziava colpi di stato, tramava in continuazione senza alcun confine giuridico o morale, con l’obiettivo principale, se non proprio unico, di predare ogni risorsa per la società, e per gli azionisti. Adam Smith (non uno qualsiasi), la definirà “una strana assurdità, una compagnia-Stato” e il termine “anarchia” va inteso come caos (politico, militare, sociale, economico) da cui la CIO ha progressivamente tratto il suo enorme potere, con “spese militari fuori controllo e caos finanziario”. È necessario ricordare, come fa con estrema chiarezza William Dalrymple, che “l’inarrestabile espansione dell’impero indiano della Compagnia non sarebbe stata possibile senza il sostegno politico ed economico di questi gruppi di potere regionali e delle comunità locali. L’edificio della Compagnia delle Indie Orientali si reggeva sul delicato equilibro che essa seppe mantenere con mercanti e mercenari, nawab e Raja suoi alleati e, soprattutto, con i suoi docili banchieri”. Le condizioni geopolitiche e belliche si ripetono da un secolo all’altro finché all’alba del diciannovesimo secolo la CIO, cospirando in continuazione e alimentando eserciti di proporzioni bibliche, è riuscita, in un modo o nell’altro, a prendere il controllo dell’intera India. A quel punto però le disinvolte pratiche (diciamo così, giusto un eufemismo) di “colonialismo aziendale” avevano allarmato le istituzioni inglesi e la CIO venne nazionalizzata, rivelandosi alla fine soltanto la testa di ponte, tanto brutale quanto sacrificabile, dell’imperialismo e del colonialismo di sua maestà, ovvero di “una nuova e aggressiva concezione dell’Impero britannico in India come un’iniziativa non privata ma di Stato”. A William Dalrymple non sfugge un parallelo con le attuali multinazionali, avendo compreso che “nell’intima danza tra il potere statale e quello aziendale quest’ultimo, benché possa essere regolamentato, vi si opporrà con tutte le risorse di cui dispone” ed è così che il loro strapotere è in grado di influenzare stati e governi in ogni angolo del globo: una natura avida e rapace che si intravede già, secoli fa, nello sviluppo della CIO e del destino, suo e dei suoi uomini. Un libro imponente e importante.

mercoledì 9 ottobre 2024

Anthony Burgess

Hemingway nel discorso di accettazione del premio Nobel disse che “se è uno scrittore abbastanza in gamba, deve affrontare l’eternità, o la mancanza di essa, ogni giorno”. La biografia di Anthony Burgess sembra partire proprio da lì, spiegando che sebbene “i difetti dell’uomo alla fine abbiano mutilato l’opera, al suo meglio Heminway è una forza generatrice di ulteriori sviluppi pari a quella di Joyce, Faulkner o Scott Fitzgerald. E anche nel peggio ci ricorda che, per impegnarsi nella letteratura, bisogna prima impegnarsi nella vita”. Non si può dire che Hemingway non ce l’abbia messa tutta: l’aspetto fisico, fin dall’incipit, l’infanzia tratteggiata rispetto ai nodi famigliari, il suggerimento di Sherwood Anderson di andare a Parigi “dove, come dice Henry James, perfino l’aria è soffusa di stile”, gli incroci con James Joyce, Ford Madox Ford e Gertrude Stein raccontano una formazione che è stata tutta un’esperienza. Seguendolo, Burgess alterna i tratti storici a quelli critici, che riguardano i romanzi, i racconti e più in generale lo stile di Hemingway: la biografia è essenziale e in parte sbrigativa, ma funziona a livello introduttivo e contiene un po’ tutto: il carattere volubile, gli eccessi (nel cibo e dell’alcol), i viaggi e le peripezie, ma anche una rilettura approfondita del suo lavoro, come capita a Morte nel pomeriggio, “un ponderoso studio sulla metafisica della corrida”. La tauromachia vista da Hemingway è quasi un’anticipazione visionaria della guerra civile spagnola e Anthony Burgess si avvicina alla sua scrittura con genuina passione, ma non risparmia critiche attente e significative: “Hemingway non fu mai molto bravo come inviato di guerra. Il talento di romanziere lo spingeva a inventare, a organizzare la realtà in schemi estetici, a coltivare l’impressionismo che Ford Madox Ford incoraggiava a portare dalla letteratura nella vita reale”. Mentre si susseguono matrimoni e divorzi, avventure più o meno vere nel corso di due guerre mondiali, la pesca, la caccia e la boxe Burgess legge con scrupolo e senza esitazioni Di là dal fiume e tra gli alberi, analizza il successo raggiunto con Il vecchio e il mare, che “affronta il tema del coraggio mantenuto dinanzi al fallimento” e compie anche una cernita tra i fatti e le invenzioni che permette una conoscenza più che sufficiente tenendo anche conto che “la letteratura non è fondamentalmente invenzione: significa disporre entro modelli estetici le données di un’esperienza di vasta portata”. Senza dubbio, Hemingway rimane un profilo complesso, articolato e spesso contraddittorio: Anthony Burgess ha il pregio di trovare un ordine o, almeno, una coerenza nel corso di una vita caotica. Non è un’analisi risolutiva, ma almeno pone le basi per un ritratto dignitoso ed efficace, dove Anthony Burgess riassume così il senso di un’intera figura: “Hemingway non si accontentò di eccellere nel ruolo di cacciatore, pescatore, pugile e capo guerrigliero. Dovette trasformarsi in un mito omerico, il che significava posare e mentire, trattare la vita come un romanzo”. Su questo, il suo lavoro biografico incide nell’insieme con una sua precisione, anche nel rileggere i principali passi stilistici di Hemingway. Il pregio principale resta quella separazione piuttosto precisa tra la leggenda che si è costruito da sé, e l’effettivo valore dello scrittore che ha saputo trovare un nuovo modo di esprimersi: “Il fine artistico di Hemingway era originale come quello di qualunque altro intellettuale di avanguardia che dissertava nei caffè sui boulevard. Scrivere senza fronzoli, senza imporre il proprio modo di pensare, far sì che parola e struttura esprimano pensiero, sentimento e anche fisicità, sembra facile oggi, soprattutto perché Hemingway ci ha mostrato come farlo, ma non era facile quando letteratura significava ancora stile calligrafico in senso vittoriano, con abbellimenti neogotici, allusioni pedanti, una struttura intricata di frasi subordinate, la personalità dell’autore frapposta, timidamente o brutalmente, fra il lettore e l’opera scritta”. Molto accurata anche la descrizione del crepuscolo riportato da Anthony Burgess dove ricorda quello che diceva Hemingway, ovvero che “scrivere significa, nel migliore dei casi, una vita solitaria”, e su questo non si discute.