Dopo una rovinosa caduta, Sylvain Tesson si avvia a un pellegrinaggio per mantenere fede a una promessa, che diventa una scelta: i Sentieri neri si trasformano in vie di fuga. Alla partenza si tratta di una questione personale, come confida lo scrittore francese: “Riponevo nel movimento la mia speranza di salvezza”. Nell’inoltrarsi attraverso la Francia, dalla Provenza alla Normandia, scopre via via che “esisteva ancora tutta una geografia minore: bastava saper leggere le carte, non evitare le deviazioni e sapersi aprire un passaggio”. Sui Sentieri neri, Sylvain Tesson non si perde in meditazioni bucoliche, ma affronta i conflitti che attraversano la Francia passando da piste ormai dimenticate. Ne viene fuori un ritratto credibile, delineato da una scrittura ricca e agevole nello stesso tempo. Un ritratto di una nazione attraverso mappe 1:25.000, non sempre aggiornate, lo porta ad appuntarsi gli effetti degli sviluppi e dell’industrializzazione l’industrializzazione dell’agricoltura, la scomparsa dei villaggi e l’apparizione delle infrastrutture stradali e ferroviarie e il proliferare di anonimi paesaggi suburbani, fino a considerare che ormai “il pianeta serviva da palcoscenico alla circolazione degli uomini e delle merci”. È lì, da qualche parte nel Massiccio Centrale che Sylvain Tesson matura la convinzione che è meglio perdersi sui Sentieri neri o “insomma tenersi in disparte, o meglio sparire”. Una volontà perseguita non senza sforzi, perché il cammino è faticoso e non tutte le strade sono aperte, ma con la certezza di coltivare “un piacere di bassa intensità”. La scrittura quotidiana diventa lo strumento per riportare frammenti di memoria, dettagli di un rinnovato rapporto con la natura, gli animali e le piante nonché il senso della solitudine e dell’incontro. Se per gran parte del suo viaggio, Sylvain Tesson è solo con le sue ossa rotte, per un breve tratto viene affiancato da un altro viandante, Cédric Gras, abituato a trasferte ben più ardite nelle praterie siberiane. Oltre ai passaggi nei boschi e ai frugali pasti, i due condividono la passione per la cultura russa e le motivazioni che li spingono, dopo passo, in una direzione ben precisa. Se sulla mappa i Sentieri neri sono linee imprecise, nello sviluppo del cammino diventano un’opportunità che Sylvain Tesson rivendica con convinzione: “Procedevamo leggeri senza pensare ad altro che a trovare la strada, intenti a godere di tutto ciò che si offriva allo sguardo: una pianta di nocciolo, il volo di uno svasso, un granaio di pietre a secco. Ci accontentavamo di quelle cose. Ci sottraevamo al dispositivo”. Arrivato nella penisola del Cotentin e davanti all’oceano diventa chiaro che i Sentieri neri hanno garantito “fughe, ripiegamenti, passi di lato, lunghe assenze punteggiate di silenzi e nutrite di visioni. Una strategia della ritrattazione”. Sfilando davanti a Mont Saint-Michel e inoltrandosi in un tragitto sulla spiaggia, effimero perché sottoposto agli umori delle maree e ancora più labile dei Sentieri neri, Sylvain Tesson firma una sorta di conclusione, a suo modo definitiva: “Il momento era suggestivo: un sentiero si perdeva nel nulla e ci rendeva felici perché non autorizzava a sperare in qualcosa ma si limitava a far scaturire i sogni”. È una bella gimkana, ma vale la pena provarci.
martedì 19 novembre 2024
mercoledì 13 novembre 2024
Ryszard Kapuściński
La guerra è in arrivo, una città si dissolve nella paura, l’assedio concede soltanto una surreale tregua nel weekend, quando i rovesci del fronte si fermano. Nel 1975, Ryszard Kapuściński è a Luanda, capitale dell’Angola, testimone degli ultimi giorni del dominio portoghese e dell’inizio di decenni di guerra civile e non, comprensivi degli interventi esterni (dal Sudafrica a Cuba) e degli interessi occidentali. Confinato nel suo albergo, spiega che “accaddero molte cose prima che la città venisse definitivamente chiusa e condannata a morte”. Fiorisce un mercato di casse di legno per spedire suppellettili e vettovaglie, gli sforzi per trovare l’acqua, il cibo e l’alcol si moltiplicano ogni giorno, usare una linea telefonica è un’impresa anche perché, come dice Ryszard Kapuściński “ci troviamo in un mondo immobile, che trattiene il fiato”. Già allora è un inviato che vive la tensione della guerra senza l’adrenalina e le mistificazioni che adornano le gesta belliche. Il suo è un racconto colmo di umanità per chi deve affrontare e sopportare le privazioni, le crudeltà, le fatiche, i silenzi, dato che “ognuno se la sbrigava per conto suo, facendo affidamento solo sulle proprie forze”. Descrive quei momenti febbrili e pericolosi con rara intensità, osservando molto da vicino, lasciando sovrapporre le voci, indistinte nel suo reportage, rischiando ogni giorno, ma restando sempre lucido e attento agli sviluppi geopolitici. Riassume la sua personale condizione così: “La mia vita scorreva da un avvenimento all’altro, tesa in modo imprecisato verso una meta ignota. Sapevo solo che volevo restare lì fino alla fine, indipendentemente da quando fosse arrivata da quale sarebbe stata. Tutta quella situazione era un enigma che mi attraeva e affascinava”. Mantenendo fede al suo mandato, Kapuściński vuole affrontare la prima linea, ma i combattimenti sono sparpagliati attorno alle sorgenti d’acqua e frazionati in dozzine di entità, tribali e internazionali, al punto che “ogni reparto è un fronte potenziale. Ogni volta che un nostro reparto si scontra con un reparto nemico, i due fronti potenziali si trasformano in fronti reali e scoppia la battaglia. In questo momento noi siamo un potenziale fronte di tre uomini, diretto al nord. Se cadiamo in un’imboscata, diventiamo un fronte reale. È una guerra di imboscate. Su ogni strada, in ogni posto può esserci un fronte. Si può fare il giro del paese e tornare indietro sani e salvi, come si può morire al primo metro di strada. Non ci sono princìpi né metodi, tutto dipende dalla fortuna e dal caso. Questa guerra è un vero casino, non si capisce un accidente”. I cadaveri lungo la strada, i posti di blocco regolati da procedure variabili con il clima e l’umore, il sacrificio della sua scorta, Carlotta, rendono Kapuściński partecipe della dissoluzione di una nazione, che scompare in un’orgia di violenza: “Ognuno voleva indicare con il dito il punto in cui, a suo avviso, si trovava il fronte, spiegare in mano di chi fosse una data città, a chi appartenesse questa o quella strada. Non c’erano due persone che vedessero la situazione allo stesso modo. Dopo alcuni giorni, le centinaia di dita strusciate sulla mappa ne aveva cancellato città, fiumi e strade: il paese sembrava il frammento di un grigio, spoglio pianeta, privo di uomini e di natura”. Ed è così che anche per un indomito veterano come lui viene l’ora di partire, lasciando Luanda e l’Angola al loro destino e ammettendo che “il mondo contempla il grande spettacolo di lotta e di morte che, oltretutto, non riesce assolutamente a immaginare, poiché il volto della guerra non è comunicabile. Né con la penna, né a voce, né con la macchina da presa. La guerra è una realtà solo per chi sta conficcato tra le sue sporche, disgustose e sanguinolente interiora”. Amaro, toccante, firmato con la classe di un reporter insuperabile.
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