giovedì 2 ottobre 2025

Ryszard Kapuściński

Risalta una frase tra i quattro interventi raccolti in questo piccolo libro. Riguardano tutti L’altro e Ryszard Kapuściński li espone nella cruciale zona d’ombra tra la fine del ventesimo secolo e l’inizio del successivo in occasioni pubbliche a Vienna, Graz e Cracovia. I tragitti mitteleuropei, che per Kapuściński è come sentirsi a casa, lo spingono a riflettere sulle affinità elettive dell’incontro, primo e indispensabile stadio per raggiungere L’altro, e, a scanso di equivoci, chiarisce subito che “siamo responsabili della strada che percorriamo”. È una precisazione che lo riguarda in prima persona: da reporter ha attraversato nazioni dopo nazioni in ogni continente e l’esperienza coltivata insieme alla “curiosità per il mondo” lo porta a formulare un preciso impegno, preliminare ineludibile su cui ragionare prima di qualsiasi movimento: “Viaggiando sentiamo che sta accadendo qualcosa di importante, che partecipiamo a un evento di cui siamo nello stesso tempo testimoni e creatori, che adempiamo a un dovere, che siamo responsabili di qualcosa”. È una considerazione che Kapuściński traduce dall’esperienza personale sul campo a quella strettamente letteraria. Da Erodoto, il primo a riconoscere “l’altro” al suo riconoscimento nelle indefinite proiezioni del “villaggio globale”, Kapuściński si inoltra nei territori dove la diversità si esprime in forme mutevoli con le ricchezze e le contraddizioni che si sovrappongono senza soluzione di continuità. Con la consueta lucidità e con grande equilibrio, Kapuściński sa districarsi tra le diverse voci, assumendo anche posizioni discordanti, come succede rispetto allo stesso Marshall McLuhan. La discontinuità stessa dei termini della globalizzazione, in virtù dell’evoluzione dei mezzi di trasporto e delle reti digitali riconduce a un paragone senz’altro più realistico rispetto all’originale locuzione di McLuhan che Kapuściński non manca di far notare: “L’essenza del villaggio consiste nel fatto che i suoi abitanti si conoscono intimamente, si frequentano e condividono un destino comune. Cosa impossibile da dirsi nella società del nostro pianeta, che fa piuttosto pensare alla folla anonima di un grande aeroporto: una folla di persone frettolose, sconosciute tra loro e perfettamente indifferenti le une alle altre”. L’empatia per L’altro è solo un primo, fragile passo e per riconoscerne l’identità è indispensabile alimentare estensioni culturali che sappiano andare oltre il contatto spontaneo tra gli individui. L’altro, ovunque lo si collochi, è una rifrazione ed è la metà complementare di un’unità dinamica, i cui lavori in corso non si fermano mai. Ignorare quest’ordine, con un’accezione distorta delle differenze, porta soltanto alle divisioni, ai muri, alla perpetrarsi dei conflitti, ma questa è storia e cronaca che purtroppo conosciamo bene. Nella visione di Kapuściński L’altro è costituito con maggiori margini di certezza e nelle sue generose prolusioni attinge piuttosto al pensiero filosofico di Martin Buber, Ferdinand Ebner, Gabriel Marcel ed Emmanuel Lévinas che raduna uno dopo l’altro, tutti insieme, nel confezionare “l’idea dell’altro in quanto essere unico e irripetibile”. L’altro è una constatazione che traccia una linea precisa, una congiunzione netta che, soprattutto di questi tempi, è più necessaria che mai.