martedì 27 febbraio 2018

Maurice G. Dantec

Maurice Dantec colpisce con un romanzo che fa di tutto per depistare il lettore, ma che nello stesso tempo lo rifornisce in continuazione di informazioni perché non perda di vista il nucleo centrale della storia, il nocciolo della questione, il big bang esistenziale nascosto tra le righe. Hugo Cornélius Toorop, personaggio ben noto agli aficionados di Dante, è incaricato da un ramo della mafia siberiana di portare in Canada e proteggere tale Marie Zorn, una ragazza che nasconde nel suo corpo qualche insondabile segreto. Siamo in un futuro abbastanza vicino e “il tempo passa molto in fretta”, come se fosse una variabile ormai impazzita. Non è l’unica: nel caos imperante di Babylon Babies, tra orrende sette religiose e bande di bikers, robot omosessuali che si suicidano perché non riescono a confrontarsi con la propria identità e un cane mutante di nome Springsteen, le forme di vita più rassicuranti sono i mostri che popolano le visioni di Toorop. Lui è l’essere umano troppo umano il cui ruolo sembra essere essenzialmente quello del testimone o di punto di riferimento per il lettore nel torrenziale diluvio di Babylon Babies, che è una vera e propria information overload letteraria. È un libro che forse offre anche l’occasione per chiederci che tipo di informazioni vogliamo da un romanzo, perché ci si trova in un bazar dove c’è di tutto: dalla fantascienza al thriller passando attraverso psicologia, biologia, antropologia, geopolitica, spionaggio e depistaggi assortiti, videogame e riti sciamani. A prima vista sembrerebbe Matrix in versione carta e inchiostro, ma dietro i fuochi d’artificio di Dantec si cela quello che è, in fondo, il tema essenziale di Babylon Babies, ovvero, per dirla con le parole dei suoi personaggi, quella “infinita varietà mutagena del principio comunemente chiamato identità”. Per arrivarci, con non poca soddisfazione, il lettore deve tenere il ritmo forsennato imposto dall’autore, non lasciarsi distrarre dalle mille bizzarrie tecnologiche di cui è disseminato il romanzo e nello stesso tempo cercare di non perdere i collegamenti principali della storia, che altro non è se non la memoria di tutte le identità che la attraversano. E basta una frase a spiegarlo: “Quel che conta, se ho capito bene, è che tutto sia scritto. E letto. Anche se da una sola mente. Che, va da sé, non sia quella dell’autore”. Troppo vero. Memorabile l’incipit: “Vivere era allora un’esperienza incredibile, nella quale il più bel giorno della tua esistenza poteva rivelarsi l’ultimo, oppure dormire insieme alla morte ti garantiva di vedere il mattino seguente, e nella quale alcune regole d’oro si imponevano con fermezza: mai camminare nel senso del vento, mai voltare la schiena a una finestra, mai dormire due volte di seguito nello stesso posto, rimanere sempre nell’asse del sole, non aver fiducia in niente e nessuno, trattenere il respiro con la classe del mortovivente al momento di estrarre il ferro salvatore. Qualche variante poteva di volta in volta aggiustarsi, la posizione del sole in cielo, il tempo che faceva, e con chi si aveva a che fare”. Da lì in poi, è una cascata da affrontare senza esitazioni.

Nessun commento:

Posta un commento