La storia è grezza e rudimentale: un gruppo di giovani amici jugoslavi, con tutto il naturale intreccio di passioni, amori, speranze e frustrazioni, si scompone all’inizio delle guerre balcaniche nell’ultimo decennio del ventesimo secolo. Si ritroveranno drammaticamente sotto altre bandiere, cambiati, deformati, irriconoscibili tanto da non poter più distinguere amico da nemico e da considerare che dopo tutto “non c’era una via d’uscita, non c’era speranza, il futuro era solo un proiettile in canna”. Romanzo d’esordio di Vladimir Jokanović, nato in Croazia da genitori serbi, Non è la mia guerra non è quello che comunemente si intende un bel libro. In quel frangente, Vladimir Jokanović, non era nemmeno uno scrittore dal linguaggio forbito, mancava del senso complessivo del racconto e dava al ritmo un senso piuttosto altalenante. In Non è la mia guerra ci sono momenti di furiosa intensità e secche dove molti passaggi suonano ingenui, riduttivi, forse anche dilettanteschi. Tutto ciò non impedisce a Non è la mia guerra di essere una coraggiosa testimonianza da un mondo andato in frantumi dove “i titoli cubitali dei quotidiani, i telegiornali, i manifesti elettorali, le lettere e le telefonate in piena notte, le promesse e le minacce pre-elettorali, gli stemmi e i libri di testo di storia patria, gli avvinazzati che rompevano i timpani per le strade della loro tranquilla città, le sparatorie notturne che lo svegliavano in un bagno di sudore e di piscio, tutti quei luridi giochetti che tendevano a immergerti, senza che tu te ne accorgessi in quel porcile che fino a ieri vedevi solo in televisione e che riguardava qualche altro angolo del pianeta, tutto ciò ti trascinava verso il centro di una montagna di merda per affogartici dentro”. Pur con tutti i suoi limiti, Vladimir Jokanović ha aperto una piccola crepa nell’indifferenza e nell’attonito stupore con cui è stata vissuta la disintegrazione della Jugoslavia. C’è qualcosa che per la prima volta emerge, grazie alla libertà che può concedere soltanto un romanzo, ed è un’insofferenza, un grido che sale più dallo stomaco che da altri organi, e che rifiuta di schierarsi, perché non sono possibili distinguo nell’orrore ormai conclamato: “Cazzo, che vadano tutti a farsi fottere, questa non è una guerra, è un’alluvione, si trascina tutto all’inferno”. La diaspora di Bea, Koki, Billy e Luka e Marija comincia nel dubbio, nello sgretolarsi delle convivenze, nell’indecisione se fuggire o combattere. Non può essere che una madre, quella di un altro amico, Siniša, che se ne è andato a Londra, a offrire un suggerimento, destinato, va da sé, a rimanere inascoltato: “Togliessero qualche grado a tutti questi ufficiali, ci andassero i generali a fare la guerra. Che la guerra la facciano quelli che la vogliono fare”. Nel tumultuoso incedere di quegli anni, nessuna scelta escludeva il caos, e l’incontro con la morte, prima “discreta come un segreto ben custodito fra due vecchi amici”, poi diffusa come un’epidemia inarrestabile, non solo ha devastato e azzerato le vite dei protagonisti di Non è la mia guerra, ma ha annullato intere generazioni. Un libro scomodo, ancora oggi.
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