lunedì 19 febbraio 2018

Fernando Pessoa

Se Il libro dell’inquietudine resta un universo non bene identificato lo deve all’unicità e alla multiforme personalità di Fernando Pessoa, interprete nell’occasione del più dimesso dei suoi eteronomi, Bernardo Soares. Sullo sfondo di una Lisbona invisibile eppure onnipresente, Bernardo Soares è un travet con la vocazione del sogno permanente, o dell’introspezione (o di tutte e due) convinto di poter “immaginare tutto” dalla sua condizione di “niente”. Il suo rapporto con il mondo è dettato dal fatto che “la vita è un viaggio sperimentale fatto involontariamente” e la concentrazione è rivolta alla sua percezione con ossessiva, persistente convinzione. Accompagnare Bernardo Soares nelle sue speculazioni quotidiane è un’avventura continua: nella sua forma “aperta”, Il libro dell’inquietudine spalanca spazi enormi, anche se Bernardo Soares (e/o Fernando Pessoa) è capace di accontentarsi e di perdersi con uno scorcio di campagna. Il pensiero è un flusso continuo senza interruzioni, un concatenarsi di riflessioni che si svela avvolgente, e poi imponente. La proprietà del linguaggio è tutta nel suo scorrere, un’ipnotica tensione che incolla le parole alla vita o, più, spesso le sovrappone visto che “la vera esperienza consiste nel diminuire il contatto con la realtà e nell’aumentare l’analisi di quel contatto. In tal modo la sensibilità si allarga e si approfondisce, perché in noi c’è tutto; basta cercarlo e saperlo cercare”. La dicotomia tra reale e non è risolta in modo drastico. Omesse le escursioni oniriche (“I sogni hanno questo di volgare: che tutti sognano”), assodato che “la vita è per noi ciò che immaginiamo in essa”, Bernardo Soares sposta l’attenzione verso il senso compiuto dell’interpretazione letteraria, intesa come intima conoscenza ed esperienza:  “Considero mie, con maggiore consanguineità e intimità talune figure che sono scritte nei libri, certe immagini che ho conosciuto nelle illustrazioni, più di molte persone che sono considerate reali, che sono fatte di quell’inutilità metafisica chiamata carne e ossa”. Nella suo pacato rimuginare Il libro dell’inquietudine ribadisce con assiduità questo concetto ogni volta approfondendolo un po’ di più: “Sento affetto per tutto questo, forse perché non ho più niente da amare: o forse anche perché niente merita l’amore di un’anima; e se dobbiamo dare amore per sentimentalismo, è indifferente se lo riserviamo alle piccole sembianze del calamaio o alla grande indifferenza delle stelle”. Se è un romanzo, Il libro dell’inquietudine ha una trama che va pensata, più che cercata, nelle parole e nei personaggi. L’unico che risponde all’appello è il signor Vasques, ovvero il principale di Bernardo Soares, e comunque in un ruolo defilato, quasi per contrasto, visto che l’esoterico impiegato alle sue dipendenze, rimane avvolto nella contemplazione: “Dal mio quarto piano sull’infinito, nella plausibile intimità della sera che sopraggiunge, a una finestra che dà sull’inizio delle stelle, i miei sogni si muovono con l’accordo di un ritmo, con una distanza rivolta verso viaggi a paesi ignoti, o ipotetici, o semplicemente impossibili”. Le distanze dei voli pindarici di Bernardo Soares sono in genere molto più ridotte, le aspettative di sicuro più limitate (“Dalla vita non voglio altro che sentirla perdersi in queste sere impreviste, al suono di questi bambini estranei che giocano in questi giardini sbarrati dalla malinconia delle strade che li circondano, e incorniciati, oltre che dai rami alti degli alberi, dal vecchio cielo dove le stelle ricominciano”) dato che Il libro dell’inquietudine è colmo di questi paradossi, necessari a dimostrare che “non si è mai vissuto tanto come quando si è pensato molto” e anche questo è frutto della consapevolezza che “in verità non possediamo altro che le nostre sensazioni; in esse, dunque, e non in ciò che esse credono, noi dobbiamo basare la realtà della nostra vita”. L’elevazione è, sua volta, una contraddizione: secondo Bernardo Soares “il saggio è colui che riesce a rendere monotona l’esistenza, poiché allora ogni piccolo incidente possiede il privilegio di stupirlo” e il suo compito è “cancellare tutto dalla lavagna da un giorno all’altro, essere nuovo ad ogni nuova alba, in una nuova verginità perpetua dell’emozione: questo e solo questo vale la pena di essere o di avere, per essere o avere quello che in modo imperfetto siamo”. La corrente emotiva è la vera energia che Il libro dell’inquietudine incanala e dipende in continuazione dal consiglio di rinnovamenti frequenti, per certi versi indispensabili: “Mi sembra una sorta di mancanza di igiene, questa inerte permanenza della mia vita uguale e identica nella quale giaccio, rimasta come polvere  o sporcizia sulla superficie del non cambiare mai. Così come laviamo il nostro corpo dovremmo lavorare il destino, cambiare vita cambiamo biancheria: non per provvedere al sostentamento della nostra vita, come col cibo e col sonno, ma per quell’estraneo rispetto per noi stessi che giustamente si chiama pulizia”. Le dimensioni ultime, definitive, rimangono la lettura e la scrittura, se è vero che “la letteratura è il modo più piacevole di ignorare la vita”. Rigoglioso, insistente, spiazzante anche dopo l’ennesima rilettura: un libro che non finisce mai.

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