domenica 16 dicembre 2018

John Berger

In un villaggio francese, nel cuore dell'Europa, s’intrecciano le storie di un’umanità dolente, che lotta con la quotidianità del lavoro, dell’amore, del destino, quegli incidenti che sono la vita e la morte. A prima vista sembrano racconti, frammenti e impressioni indipendenti l’uno dall’altro, però c’è il filo conduttore della musica che li collega in sottofondo e li annoda tutti, dal primo all’ultimo. Il suonatore di fisarmonica, all’inizio, si riflette in Suonami qualcosa, alla fine, quasi a definire un terreno comune, ancora prima di stabilire le connessioni tra i singoli protagonisti e della descrizione delle loro gesta. Non è soltanto una colonna sonora che attraversa i boschi e i sentieri, ma una sorta di disciplina che delimita le coordinate dell’esplorazione di Un’altra volta in Europa perché “la musica esige obbedienza. Persino la nostra immaginazione è costretta  obbedirle. Quando ci viene in mente una melodia, non riusciamo a pensare a nient’altro. È una specie di tiranno, la musica, ma in cambio ci offre la sua libertà e permette a ogni corpo di sentirsi bello. Il vecchio può danzare quanto il giovane. Il tempo viene dimenticato”. Il ritmo è funzionale a collocare ogni voce nel contesto giusto, con una cura dove coincidono la pratica artigianale,  necessaria a cogliere al volo i suoni e lo slang della cultura orale, e la raffinata cernita delle parole e delle atmosfere. John Berger si pone in una posizione di rispetto, in equilibrio tra le esigenze di una prospettiva panoramica, in grado di abbracciare le tensioni derivanti dalle ondulazioni geopolitiche, e una misura ben più specifica e minuziosa nel delineare i destini individuali dei personaggi. Nel farlo, John Berger elabora, in contemporanea, un’ipotesi validissima a richiamare l’indispensabile concretezza dell’arte di narrare. Succede quando spiega che “se potessimo dare un nome a tutto ciò che accade, non ci sarebbe bisogno di storie. Il fatto è che da queste parti la vita supera il nostro vocabolario. Ci manca una parola e così si deve raccontare tutta la storia”. Il richiamo è coraggioso e continuo, corroborato del resto dalla trasposizione e dell’adeguamento dello storytelling nella pratica della scrittura in cui si percepisce un’urgenza di ripartire dal basso. Il livello non è un vezzo sociologico: si tratta piuttosto di una scelta molto umana perché, sì, “parliamo di passione” come scrive John Berger nell’epigrafe di Un’altra volta in Europa, ma queste storie toccano corde vibranti e delicate, che pochi, pochissimi ormai osano sfiorare. Il lavoro nei campi e in fabbrica, la solitudine, la natura e i suoi eventi, i sogni e le scelte, il destino e la mutevole realtà nei nostri tempi. Tutto inciso sul “cuoio dell’amore” e narrato da John Berger con una sensibilità lirica, poetica anche quando racconta di greggi disintegrati dai fulmini e di operai che scompaiono nelle colate di fonderia, o  spiega con una volgarità popolana che “l’inferno è un posto dove le bottiglie hanno due buchi e le donne nessuno”. Toccante.

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