In un villaggio francese, nel cuore dell'Europa, s’intrecciano le storie di un’umanità dolente, che lotta con la quotidianità del lavoro, dell’amore, del destino, quegli incidenti che sono la vita e la morte. A prima vista sembrano racconti, frammenti e impressioni indipendenti l’uno dall’altro, però c’è il filo conduttore della musica che li collega in sottofondo e li annoda tutti, dal primo all’ultimo. Il suonatore di fisarmonica, all’inizio, si riflette in Suonami qualcosa, alla fine, quasi a definire un terreno comune, ancora prima di stabilire le connessioni tra i singoli protagonisti e della descrizione delle loro gesta. Non è soltanto una colonna sonora che attraversa i boschi e i sentieri, ma una sorta di disciplina che delimita le coordinate dell’esplorazione di Un’altra volta in Europa perché “la musica esige obbedienza. Persino la nostra immaginazione è costretta obbedirle. Quando ci viene in mente una melodia, non riusciamo a pensare a nient’altro. È una specie di tiranno, la musica, ma in cambio ci offre la sua libertà e permette a ogni corpo di sentirsi bello. Il vecchio può danzare quanto il giovane. Il tempo viene dimenticato”. Il ritmo è funzionale a collocare ogni voce nel contesto giusto, con una cura dove coincidono la pratica artigianale, necessaria a cogliere al volo i suoni e lo slang della cultura orale, e la raffinata cernita delle parole e delle atmosfere. John Berger si pone in una posizione di rispetto, in equilibrio tra le esigenze di una prospettiva panoramica, in grado di abbracciare le tensioni derivanti dalle ondulazioni geopolitiche, e una misura ben più specifica e minuziosa nel delineare i destini individuali dei personaggi. Nel farlo, John Berger elabora, in contemporanea, un’ipotesi validissima a richiamare l’indispensabile concretezza dell’arte di narrare. Succede quando spiega che “se potessimo dare un nome a tutto ciò che accade, non ci sarebbe bisogno di storie. Il fatto è che da queste parti la vita supera il nostro vocabolario. Ci manca una parola e così si deve raccontare tutta la storia”. Il richiamo è coraggioso e continuo, corroborato del resto dalla trasposizione e dell’adeguamento dello storytelling nella pratica della scrittura in cui si percepisce un’urgenza di ripartire dal basso. Il livello non è un vezzo sociologico: si tratta piuttosto di una scelta molto umana perché, sì, “parliamo di passione” come scrive John Berger nell’epigrafe di Un’altra volta in Europa, ma queste storie toccano corde vibranti e delicate, che pochi, pochissimi ormai osano sfiorare. Il lavoro nei campi e in fabbrica, la solitudine, la natura e i suoi eventi, i sogni e le scelte, il destino e la mutevole realtà nei nostri tempi. Tutto inciso sul “cuoio dell’amore” e narrato da John Berger con una sensibilità lirica, poetica anche quando racconta di greggi disintegrati dai fulmini e di operai che scompaiono nelle colate di fonderia, o spiega con una volgarità popolana che “l’inferno è un posto dove le bottiglie hanno due buchi e le donne nessuno”. Toccante.
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