Un incidente, una nota imprevedibile sullo spartito della vita, e l’enigmatico Gabriel Goldman, si ritrova in un letto “paziente senza una malattia conosciuta, pianista senza il suo pianoforte, criminale senza aver commesso alcun crimine, condannato senza verdetto, prigioniero senza motivo, a ogni ora del giorno fremeva dal desiderio di libertà, di varcare le mura dell’istituto in cui per volontaria costrizione era murato vivo”. Alla gamma delle incognite, così come sono ben presto annunciate da Mirt Komel, va aggiunta vertiginosa natura dello scenario che le accoglie, a suo modo un altro abbaglio perché “New York non è un vero melting pot, come va di moda definirla, nessuno si fonde con gli altri. Ognuno galleggia nel minestrone bollente in un settore separato assieme ai suoi simili: carote con carote, patate con patate, finocchio con finocchio. Inoltre in ogni gruppo ci si aiuta gli uni con gli altri (analogamente, nello stesso tipo di verdure l’una contribuisce a rendere riconoscibile il sapore dell’altra e viceversa) e lo fa a metà prezzo o gratis, quindi il lavoro svolto o non vale nulla o, nel migliore dei casi, vale la metà”. In quel momento, come direbbe Borges “la città è quasi una pianta delle mie umiliazioni e di sconfitte” e a Gabriel Goldman, visto il carattere sfuggente e vorticoso di New York, che rimane un approdo di esuli e migranti, non resta che la musica per ripristinare un minimo sindacale di ordine nei flashback che lo assalgono. Nel delicato rapporto tra equilibrio e udito, e qui Il tocco del pianista mette la musica in un posto d’onore, Gabriel Goldman si rende conto che “un’allucinazione uditiva per l’ascoltatore non solo è realistica, ma anche assolutamente ideale, perché comunque deriva dal mondo delle idee”. È quello in cui è costretto a dibattersi, cercando di afferrare “piccolezze, dettagli impercettibili” che compongono l’essenza di una personalità e della sua espressione. Ma “la realtà rovescia i pensieri” e corsi e ricorsi filosofici non bastano a tracciare un ordine, così Gabriel Goldman si ritrova sospeso tra un vuoto e i tentativi di riempirlo, sapendo che comunque “alla fin fine, ogni viaggio è un viaggio in qualche altro mondo, e chi viaggia deve almeno in parte estraniarsi, tanto di più quanto più lontano viaggia, dalla sua vita precedente e da sé medesimo, per potersi poi ritrovare”. Resta la musica, Beethoven e Chopin i nomi che ricorrono con maggiore frequenza, che è nello stesso tempo domanda e risposta, il pianoforte qualcosa in più di uno strumento, quasi un mezzo per decodificare un intero alfabeto emotivo, tutto quello che la parola può solo descrivere, e con grande fatica. Il labirintico ed erudito romanzo di Mirt Komel gioca con una leggerezza che sarebbe piaciuta a Calvino ed è una lucida riflessione in chiave narrativa sulla composizione dell’identità e su quanto incida la materia fluttuante dei ricordi. Diceva Nabokov in una delle interviste raccolte in Intransigenze: “Il passato è un continuo accumularsi di immagini, ma il nostro cervello non è un organo ideale per una retrospezione continua, e il massimo che possiamo fare è cogliere e cercare di trattenere quelle chiazze di luce iridata che sfrecciano attraverso la memoria”. È proprio quello che prova a fare Gabriel Goldman sfiorando il pianoforte in cerca delle prime note imparate da un maestro fuggito dalla Russia, del brusio di Hell’s Kitchen, e di un amore disperso, come se la musica, più che il pensiero o la scrittura, fosse l’unica rete di salvezza.
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