Quando parte per il fronte, l’appuntato Renn è avvolto da un nugolo di parole d’ordine dedicate al coraggio, all’onore, all’orgoglio e al cameratismo. Varcato il Reno, e lasciata la patria alle spalle, si chiede, non senza una certa spavalderia: “Non sono un uomo felice, pensavo, che posso partecipare ad una guerra? È una specie di liberazione da tutto. Infelici coloro che non avranno una simile esperienza nella loro giovinezza”. Ben presto, il tono aulico viene smorzato dalla realtà dei combattimenti sulla Mosa e il diario di Ludwig Renn diventa un elenco di ferite, mutilazioni, privazioni, distruzioni. L’elemento permanente è l’angoscia per un pattugliamento, per un bombardamento, per il freddo e per la fame, per gli ordini e per la disciplina. Renn cerca il conforto nella scrittura e nella lettura, ma l’incontro con la filosofia lo lascia perplesso perché “ogni filosofo dice sempre qualcosa d’altro, e i più recenti poi delle cose che non interessano nessuno; e non esiste una concezione del mondo, perché ce ne sono troppe, e son tutte né false né vere. E un bel pomeriggio, davanti all’ultima pagina del libro, perdetti ogni speranza di saperne di più”. A quel punto, le posizioni della prima guerra mondiale si sono già fossilizzate nelle trincee e per l’appuntato Renn “non c’è nulla da pensare. Tutto è vuoto”. La prospettiva diventa monotematica: i morti non si distinguono dai vivi, i nomi si susseguono e di perdono scontro dopo scontro, gli alberi sono neri, la terra è grigia, fango, topi e pidocchi sono ovunque, onnipresenti, indifferenti alle sofferenze umane. Renn vede tutto, ma è come se non vedesse nulla ed è solo la sua onomatopea a distinguere i rumori nel buio: i fischi dei proiettili, il gracchiare delle mitragliatrici, i rombo dei cannoni, i lamenti dei caduti. Renn viene colpito una prima volta, ma poi torna al fronte, decorato e promosso prima caporale e poi sergente: sono i giorni tragici nella Somme, con gli attacchi e i ripiegamenti che si sovrappongono senza soluzione di continuità. Anche le normali pratiche quotidiane sono travolte dal caos: vestirsi, mangiare, dormire diventa sempre più faticoso, e ormai Renn è diventato fatalista nell’accettare le condizioni più crudeli: “Siamo in guerra, e non si possono avere tanti riguardi”. Mentre il fetore dei cadaveri e delle carcasse degli animali impregna tutto, e le linee si confondono, il racconto di Renn si fa farraginoso, scabra, senza alcuna rifinitura: è una testimonianza lapidaria, a dimostrazione che “ognuno deve fare i conti da sé con la propria paura”. L’entusiasmo patriottico e collettivo scompare come cenere nel vento: la Guerra secondo Ludwig Reen diventa un crudo, brutale fatto individuale perché, in fondo, “quando si va in linea e arriva una pallottola nella testa, tutto il resto non conta; ed è una cosa che interessa tutt’al più chi la piglia”. La fase finale, nel 1918, è ancora più turbolenta e ambigua. Gli ufficiali di rimpiazzo sono giovani e inesperti, le postazioni sono contigue a quelle del nemico, ammutinamenti e sbandamenti diventano sempre più frequenti. Renn, ferito una seconda volta, e ormai un veterano, riassume così la situazione: “Quelli di dietro non hanno più capito le truppe da quando è cominciata la guerra di posizione; e le truppe in linea hanno cominciato a credere di saper tutto meglio e non hanno più voluto obbedire, perché son loro che fanno i sacrifici”. Con le voci dell’imminente armistizio, nessuno vuole rischiare e, sulla via della ritirata, Renn si accorge che “la guerra diventa ogni giorno un affare sempre più sospetto” e in questa realtà, dura e ostica, svanita tutta la prosopopea del valore, della gloria e del patriottismo, resta l’infinita amarezza di un’umanità distrutta per sempre.
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