Il tocco della magia che Il libro della creazione raccoglie ed espande, fin dal titolo, è una concentrazione di rituali che sorprendono e ipnotizzano, trasportandoci con sobrietà ed eleganza a confrontarci con tutte le nostre fragilità, e la nostra insipienza davanti ai misteri della vita e della morte, e dell’amore che c’è o non c’è tra i due ineluttabili estremi. Telma è un’insegnante e a trent’anni è ancora sola e vive dentro “una famiglia chiusa, usurata, ostile”. Per lei, i genitori Ruben e Ghila, il padre e la madre, sono “cadaveri ambulanti” e li vede come figure sbiadite e rattrappite. Nei loro confronti arriva a usare precauzioni infantili, per esempio: “Non osservare mai da vicino il viso di tuo padre. Se lo fai, sei destinata a restare da sola fino alla fine dei tuoi giorni”. Le descrizioni puntigliose dei volti, dei corpi, degli umori, dei gesti concorrono a determinare un linguaggio forbito e scorrevole e a definire l’ambiente stesso che è opprimente all’infinito. Al punto che Telma sostiene di “di essere coraggiosa solo dietro la porta chiusa”: è il suo autoritratto perfetto e apre una crisi introspettiva in cui arriva a credere che “così passa la mia vita, accanto”, e che sta evidentemente per sfuggirgli di mano. I legami sono innumerevoli, ma gli unici che la emozionano sono quelli con i cugini Nilli e Chanan, un nome che rimanda alla misericordia e al perdono. Telma cova un bollente, quanto platonico, sentimento verso di lui e la svolta arriva con una precisione cabalistica nel corso delle celebrazioni della Pasqua, che vive e descrive così: “Festa di polpette e pane azzimo, festa di sangue, soffocante. Sento come se il mio cervello stesse diventando una palla di impasto. Non reggerò, non questa volta. Notte, rotonda, viola, lunga, unta, luccicante, acidula. Notte di azzime e vino, erbe amare, notte di cedimenti, di sangue e fuoco e voluta di fumo”. Telma beve per tutta la serata e quando vede Chanan baciare Nilli, gli scaraventa addosso un diluvio di vomito, una scena degna di Woody Allen in acido che scatena il prevedibile psicodramma famigliare. Ma è anche il momento in cui Telma si aggrappa al residuo coraggio e aprendo Il libro della creazione, si avvia al cimitero per creare un golem. L’essere misterioso della tradizione ebraica prende forma plasmato nella terra nera e Telma lo chiama Shaul, che non è solo il primo re di Israele, ma è anche il regno dei morti. Sarah Blau che ben conosce il potere dei nomi, lascia intuire che la sua prosperità dipende all’alito vitale delle persone vicine. Per Telma è la prima scoperta dell’amore, e non lo può nascondere, ma il rabbino Stauber la mette in guardia ricordandogli che “un golem non è soltanto un corpo”, ed è un essere imperscrutabile. Ma Shaul più che a una creatura folkloristica somiglia a un irrequieto Frankenstein: assorbe troppo in fretta le caducità umane e si lascia trasportare nella turbolenta insofferenza di Telma. Il libro della creazione è la dimostrazione di quello che scriveva Mary Shelley, ovvero che “l’invenzione consiste nella capacità di cogliere le potenzialità di un argomento e nel potere di plasmare e foggiare le idee che questo suggerisce”. Attorno alla leggenda del golem, Sarah Blau, gestendo con grande disinvoltura e originalità l’elemento fantastico, ha dipanato una fittissima rete simbolica e metaforica che avviluppandosi all’albero genealogico di Telma risale lungo i rami femminili, dalle volubili zie Edith e Tzila fino al dramma di Chaya che partorisce due gemelli siamesi, l’ultimo degli arcani che si protraggono lungo Il libro della creazione, fino alla forza della nonna Gerta. In realtà tutto comincia dal suo funerale: se Telma compone il golem per soddisfare le sue voglie d’amore, lei li avrebbe voluti al fianco nell’insurrezione di Varsavia, nella primavera del 1943. Ma non arrivò nessun gigante e anche gli alleati tra gli esseri umani si rivelarono molto, molto piccoli.
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