L’occhio assoluto è il “libro nomade” di Bruce Chatwin che rispecchiava l’intenzione principale riportata nei suoi taccuini: “Questo libro è stato scritto per il bisogno di spiegare la mia persona inquietudine, unito a una morbosa preoccupazione per le radici”. Il valore aggiunto, e singolare, è la componente fotografica che costituisce la parte più sorprendente che L’occhio assoluto mette a disposizione. Come per la scrittura, sono il taglio e la prospettiva a rendere del tutto originale e personalissima la visione di Bruce Chatwin. Nell’introdurre L’occhio assoluto, Francis Wyndham ne traccia un profilo perfetto: “Chatwin non girava il mondo fissando sulla pellicola magnifiche opere d’arte, edifici straordinari, paesaggi pittoreschi o bizzarri costumi locali. Spesso i dettagli su cui si soffermava sarebbero passati inosservati agli occhi di chiunque altro. Il loro valore risiede nel fatto che ci illuminano con un fugace bagliore il suo modo di vedere il mondo, ossia un paesaggio interiore rigoroso, sofisticato e inconfondibile”. Le immagini sono geometrie di colori, astrazioni delle forme e linee di luci e ombre: più il frutto di un pensiero, che di una rappresentazione. Nello stesso modo, gli appunti sono imperniati sulla generazione di un’ideale gamma cromatica: l’azzurro che in Africa domina in tutte le sue tonalità, l’austero bianco e nero della pellicola usata in Patagonia, le sfumature del tramonto in Mali (“Il cielo color peltro e il sole che vi sprofonda”) e a Kandahar (“Il sole tramonta senza trucchi da istrione, splende chiaro e dorato dietro la lastra grigia della montagna”) e poi i dettagli che si dilatano fino a occupare tutto lo spazio immaginabile: l’insegna di un hotel in Pakistan, i musi delle capre in Nepal, i pipistrelli a Giava, papaveri e margherite in Grecia, il capanno di Butch Cassidy, una chiesa abbandonata in Russia e un mausoleo a Herat, un televisore trasformato in una gabbia per uccelli in una vetrina di Lisbona. Bruce Chatwin ha un debole per le porte con tutta la loro specifica simbologia (“Nessuna casa fissa fino all’età di cinque anni, dopodiché lotte, tentativi disperati da parte mia di fuggire, se non fisicamente, almeno mediante l’invenzione di paradisi mistici”), ma è anche un narratore accorto (“Devo scrivere questo libro in maniera intelligibile”) che riesce a collocare ogni singola esperienza in un contesto molto più ampio. Un piccolo incidente di percorso gli permette di riflettere sulle modalità del viaggio, come quando, in Mauritania, resta bloccato nella sabbia: “È una strada di terra, ma il camion si è bloccato. Non vorrei guidare nel deserto senza avere molta più esperienza. Bisogna essere degli specialisti, ci vuole una grande abilità. Il segreto sta nel sapere quando scendere dalla macchina per esaminare la strada, e dopo averlo fatto, nel capire cosa comporterà l’andare avanti”. Capiterà ancora, ma per L’occhio assoluto le avversità sembrano aggiungere motivazioni nel raggiungere luoghi dove “ogni senso della realtà sembra assente”. Un accostarsi continuo alle evenienze del viaggio, alle manifestazioni del clima e della natura, sfidando “il solito orrore dei viaggi aerei” e mille peripezie, ma anche tenendo conto di realtà contraddittorie e violente. Le valutazioni di Bruce Chatwin sull’Africa, per esempio, restano ancora oggi stringenti e puntuali: “Gli aiuti di potenze straniere, comuniste e capitaliste, contribuiscono a creare masse urbane scontente, che non sono abituate a lavorare come intendiamo noi. Si accusano i sindacati di essere distruttivi. Ma le cose non stanno così, si tratta puramente di una reazione imprevista a una situazione impossibile”. E l’unica verità che mette in gioco Bruce Chatwin è che “la vera arte non può mentire, non per molto”. Ci si può fidare, L’occhio assoluto è stato sperimentato sul campo.
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