In un’intervista di parecchi anni fa Ballard sosteneva che nel futuro le principali malattie a colpire gli esseri umani avrebbero riguardato le vie respiratorie, le facoltà mentali e la cute. Sulle prime è stato profetico, sulle seconde non manca molto, e per quanto riguarda la terza ha avuto un’ottima allieva in Aliya Whiteley. Nelle particolari condizioni create per La muta, la pelle diventa un elemento speciale, non solo l’involucro del corpo, ma anche una sorta di archivio delle emozioni. L’aveva ben capito Thomas Harris con Jame Gumb alias Buffalo Bill, il personaggio che Il silenzio degli innocenti vedeva al centro dell’attenzione proprio mentre cercava di rivestirsi con una pelle fatta su misura, ed è il motivo per cui Rose Allington si ritrova a combattere: è stata la guardia del corpo e l’amante di Max Black, attore, regista e produttore cinematografico. Uno che non deve chiedere mai (“Fai sempre così. Una cosa è reale solo se lo dici tu”), si sarà capito. I due ruoli prevedono un contatto diretto, ravvicinato, sensibile, ma in un mondo dove l’epidermide cambia ogni sette anni, la tensione non si può nascondere e per Rose ogni trasformazione è una sofferenza infinita al punto di dover lasciare Max e il suo lavoro. Il provvisorio rifugio è la famiglia, che resta ancora il legame più solido, dove l’amore è interiorizzato, incanalato e probabilmente istituzionalizzato. Rose rientra in questo alveo, limita le ambizioni (la ritroviamo occupata in un piccolo negozio che tratta le pelli) risale alle origini, prima di essere coinvolta ancora nel e dal suo passato. È chiaro che La muta è un’epifania perché è convinzione generale che “perdere la pelle non è la tragedia che sta al centro della condizione umana. Provare la stessa cosa per sempre: questo è peggio”. Le mutazioni sono essenziali a completare i cicli vitali, ma anche a determinare le posizioni sociali. Le leggi non dichiarate dello stardom system sono feroci: o dentro, o fuori. Questo diventa evidente nella seconda parte del romanzo che si avvolge attorno alla prima seguendo la diaspora degli Stuck Six, una sorta di mix tra una boy band e un reality show a cui Max Black vuole dedicare un film. Nomi, cognomi e pseudonimi si alternano come le pelli che si consumano, e le storie che si scambiano, coprendo professioni imbarazzanti, e tutto un background che Aliya Whiteley è molto saggia a lasciare nascosto, così il lettore trova un po’ di spazio anche per le inevitabili domande che sorgono spontanee. Quante pelli si possono cambiare in una vita? E quanto amore può restare su una pelle? La muta ruota attorno a questi interrogativi e al tentativo di conservare le pelli (e, forse, l’amore) e lì ci si inoltra in un sottobosco di ex militari, prostitute, spacciatori, tutte figure appariscenti nel mondo scintillante che ruota attorno a Max Black e agli Stuck Six, ma che sono pericolosamente vicini ai bassifondi, e questo Rose lo sa benissimo. Nel corso delle mutazioni, la pelle è una costante dell’identità nel tempo e nel friabile tempo delle star diventa un raro elemento di memoria e diventa un’ossessione al punto di costituire un pericolo. Con tutte le sue simbologie il romanzo di Aliya Whiteley va annusato, sfiorato, toccato proprio perché, in un’era dove tutto è smaterializzato, anche i rapporti umani, riporta il corpo, con le sue variabili e i suoi limiti, al centro dell’attenzione. Ed è molto vicino alla realtà, anche se la osserva attraverso una lente deformante: il tono della scrittura è pop, leggero e movimentato, la trama si snoda come una sceneggiatura, ma quello che scorre in sottofondo, quasi come un presagio, vale molto di più. E Ballard approverebbe, senza dubbio.
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