Il labirinto comincia qui, nell’ambigua umiltà dell’epigrafe, quando Borges a poco più di vent’anni scrive: “I nostri nulla differiscono di poco; è banale e fortuita la circostanza che sia tu il lettore di questi esercizi ed io il loro estensore”. Fervore di Buenos Aires è l’apologia delle ombre, nei cortili e nei vicoli, e di una città Buenos Aires vissuta come un mondo visibile e occulta nello stesso tempo e comunque indivisibile da Borges, che si attiene a una costruzione espressiva illimitata ed estrema. Un’esuberanza che si annuncia già con La recoleta, i cui versi centrali dicono: “Vibrante nelle spade e nella passione e addormentata nell’edera solo la vita esiste. Lo spazio e il tempo sono forme sue, strumenti magici dell’anima, e quando questa si spegnerà, si spegneranno con essa lo spazio, il tempo e la morte, come al cessare della luce si estingue il simulacro degli specchi che già la sera stava spegnendo”. Le crepuscolari cornici tratteggiate con Il sud o in Strada conosciuta accompagnano l’avventura nei meandri di Buenos Aires dove, come dice con Il truco sopravvivono “gli stessi versi e le stesse diavolerie” e dove “è bello vivere con l’amicizia oscura di un atrio, di una pergola e di una cisterna”, così elencati in conclusione a Un patio. Il giovane Borges è apodittico e temerario. Narrando le gesta del bisavolo, il colonnello Isidoro Suárez, comandante della cavalleria nelle guerre d’indipendenza peruviana e colombiana, conclude la sua Iscrizione sepolcrale con due versi che celebrano tutta l’amarezza, dopo le gesta eroiche: “Preferì l’onorevole esilio. Oggi è un pugno di cenere e di gloria”. In punta di polemica è anche Sala vuota, dove dice che “i dagherrotipi mentono la loro falsa vicinanza di tempo trattenuto in uno specchio e al nostro esame di perdono come date inutili di confusi anniversari”. Un’annotazione che, a distanza esatta di un secolo, vale anche per la loro evoluzione digitale che, per quanto precisa e dettagliata, non riesce a raccogliere “il capitale delle notti e dei giorni” o “il sospetto generale confuso” dovuto all’enigma del tempo, che sono le principali ossessioni di Jorge Luis Borges. Gli omaggi a Schopenauer e a Walt Whitman sono gli unici riferimenti espliciti, lasciati galleggiare tra i versi perché poi, come rivela in Camminata, Borges ammette finalmente di essere “l’unico spettatore di questa strada”. Allora è un trionfo di tramonti e silenzi, solitudini e ricordi, sere e segreti, assenze e crocicchi che conducono, in Semplicità, a quel voler essere ammesso a una realtà “innegabile”, proprio come “le pietre e gli alberi”. È quella la cifra precisa delle osservazioni e della profondità cercata nel Fervore di Buenos Aires che, in un costante processo di rarefazione, verrà infine celebrata così in Benares: “E pensare che mentre gioco con dubbiose immagini, la città che canto, persiste in un luogo predestinato del mondo, con la sua topografia precisa, popolata come un sogno”. Scriverà, nel prologo aggiunto a Fervore di Buenos Aires nel 1969: “A quel tempo cercavo i tramonti, i sobborghi e l’infelicità; ora i mattini, il centro e la serenità”. Tutto chiaro.
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