La definizione “poeta del futuro”, in cui Konstandinos Kavafis si rispecchiava, è sicuramente una visione, una proiezione e per molti versi anche un azzardo, ma certo coglie il senso compiuto delle sue liriche. Kavafis mescola a secco storia e mitologia, riducendole a un flusso di versi sottili, intensi e pregnanti, come se la poesia fosse una forma di interazione, di interpretazione e di traduzione. Un linguaggio simbolico, ricco e ipnotico, che si svolge in un avvertimento, a suo modo inevitabile, per le Idi di marzo: (“Temi la gloria, e se non puoi vincere le tue ambizioni, abbi almeno cautela e precauzione nel secondarle. E quanto più avanti vai, tanto maggiori siano attenzione e accortezza”) e che guarda a Itaca, (“Augurati che la strada sia lunga”) come un centro di gravità permanente di tutte le culture classiche del bacino mediterraneo, che Kavafis mostra di conoscere e di possedere in profondità. Il mare è anche protagonista con Le navi, una prosa che è metafora della trasformazione delle parole, dalla “fantasia” alla “carta”, ma la materia che accomuna gli dei agli esseri umani è quella sensualità, vista attraverso “occhi poetici” e trattata da Kavafis con passione, ma anche con estremo riguardo e grande cura. Espressa con somma raffinatezza, si disvela misurando le distanze tra “l’antico desiderio” e “la memoria del corpo”, come è declamata in Torna: un’insistente voluttà composta il più delle volte da un’assenza, da una perdita, da un vuoto improvviso. O dalla conclamata volontà, celebrata in Andai: “Non volli legami. Mi lasciai completamente andare. Verso piaceri, in parte reali, in parte turbinanti nella mente, andai nella notte illuminata. E bevvi vini forti, come bevono i valorosi del piacere”. Il ricordo gioca un ruolo decisivo e ambivalente che per Kavafis si manifesta nella ricostruzione delle atmosfere in Nello stesso posto (“Aria di casa, i locali, il quartiere che vedo e dove cammino; da anni e anni. Ti ho creato nella gioia e nel dolore: in tante vicende, in tanti fatti. E sei tutto sentimento, ora, per me”) e soprattutto nella costante percezione di una luce, che è evidente in Quando si risvegliano: “Cerca di conservarle, poeta, anche se sono poche quelle che si fermano. Le tue visioni erotiche. Nascondile, in parte, nei tuoi versi. Cerca di trattenerle, poeta, quando si risvegliano nella mente, la notte, o nel bagliore dell’ora meridiana”. Il clima crepuscolare nella poesia di Kavafis è proprio un’estensione di questo equilibrio, tra la carica emotiva e la sua riduzione in forma di parola, comprese quelle poesie destinate a una forma di memoria indefinita e catalogate con la dicitura: “Non per la pubblicazione, ma può rimanere qui”. Questo vitale conflitto è rappresentato a un livello più intimo in Sconcerto (“La mia anima, nel mezzo della notte, nella paralisi, nello sconcerto. Fuori, fuori di lei è la sua vita. E aspetta l’improbabile aurora. E anche io aspetto, mi struggo e soffro, dentro di lei o con lei”) e, all’estremo opposto, in Giura: “Ogni tanto giura di darsi una vita migliore, ma quando viene la notte con i suoi consigli e le sue lusinghe, con i suoi compromessi; ma quando viene la notte con tutta la sua forza, alla stessa fatale gioia del corpo che agogna e cerca, perduto, ritorna”. A colmare tanta ricchezza, resta l’invocazione di Per quanto puoi, una sorta di esplicito proclama della filosofia di Kavafis: “E se non puoi la vita che vorresti, cerca almeno questo, per quanto puoi: non la svilire nei troppi contatti con la gente, con traffici e discorsi. Non la svilire portandola troppo in giro, esponendola alla quotidiana insipienza dei rapporti e degli incontri, fino a farne una fastidiosa estranea”. Allora è giusto richiamare una delle sue letture, quella di Filostratto, quando diceva che “gli dei conoscono il futuro, gli uomini ciò che accade, i saggi ciò che si avvicina”, ed è così i poeti avvicinano tutto il resto.
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