Molti anni fa, intervistato da Bill Flanagan, Richard Thompson diceva: “Combino di più quando affronto la composizione delle canzoni come se si trattasse di un romanzo o qualcosa di simile”. Quella sensazione deve averlo perseguitato talmente a lungo che alla fine ha deciso di dedicarsi a un memoir circoscritto agli anni tra il il 1967 e il 1975, ovvero dall’intuizione dei Fairport Convention all’inizio della sua carriera solista. Il modello anche per una specifica vicinanza artistica, pare essere quello seguito da Joe Boyd con Le biciclette bianche, una forma di racconto lineare che cerca di mettere ordine in anni caotici. Lo stile non è dissimile dal Richard Thompson songwriter e chitarrista: essenziale, cristallino, sincero e pungente. Un osservatore a cui non sfugge nulla e che racconta con particolare dedizione, quasi documentaristica, la sua missione nel rock’n’roll. Comincia prestissimo quando i negozi di strumenti musicali londinesi esponevano il cartello “Non si fa credito agli Who” (e certo, sfasciavano tutto) e lui è un giovane dal talento precoce e spiccato, che deve fare ben presto i conti con la realtà: “Da essere uno scolaretto a diventare un musicista professionista a fare dischi, tutto all’età di diciotto anni; il cameratismo on the road, e la tragedia e la perdita; il matrimonio, i figli e le responsabilità; e la presa di coscienza che la vita è piena di distrazioni che ti distolgono dalle migliori intenzioni”. Richard Thompson si racconta con stile, sia quando deve illustrare la vita notturna a Londra, sia quando deve narrare la convivenza rurale e bucolica con i Fairport Convention. Un ensemble che “ha sbattuto qualche finestra, senza tuttavia buttare giù la casa”, cercando di rinnovare e aggiornare la musica folk e tradizionale, pur lo spirito dei tempi, come spiega Richard Thompson nell’epilogo: “Come i nostri contemporanei anche noi rifiutavamo le nuove regole sociali, prestabilite e soffocanti, idealizzavamo nuovi modi di esistere e di modellare la società, generalmente condannando la guerra e coloro che la facevano, e non avevamo simpatia per i nostri genitori”. Detto questo la rivisitazione di Beeswing è indulgente e rispettosa, anche se è limpida e non nasconde nulla degli usi e dei costumi dell’epoca. Ogni episodio viene collocato in una giusta cornice: dal tragico incidente che coinvolse i Fairport Convention nel maggio del 1969 alla scoperta dell’America, dal legame con Sandy Denny al matrimonio con Linda, dagli eccessi alcolici alla svolta religiosa, Beeswing è un bel ritratto di un periodo prolifico e tumultuoso, comprensivo delle modalità del business, rivelate da un insider al di sopra di ogni possibile sospetto. Anche se la fiction è ridotta al minimo indispensabile, gli aneddoti si sprecano anche se poi l’afflato verso la musica resta il carburante principale, per non dire l’unico. Il libro arriva a Shoot Out the Lights, il disco (meraviglioso) che ha dato una svolta alla sua carriera solista, ma siamo già in un altro mondo. Qui ci va un piccolo duetto, dove la collega Sandy Denny dice: “Immagino che faccia tutto parte del ricco mosaico della vita”, laddove Richard Thompson pare rispondere di conseguenza: “Penso che noi scriviamo canzoni per puro piacere, ma anche per capire noi stessi e per decifrare la vita”. È il percorso a fasi alterne, ma continue e cicliche, che costituisce il substrato più denso di Beeswing e, tornando all’intervista in cui spiegava le modalità del suo songwriting, Richard Thompson arriva a dire che “se sto scrivendo con regolarità sognerò anche le canzoni”. Così eccolo intercalare nella sua storia sia le divagazioni imposte da strofe e ritornelli di antiche e nuove ballate, sia i ricorrenti paesaggi onirici dove gli capita di incontrare Keith Richards o Joni Mitchell e di trovare, alla fine, la sua voce: la vita è un sogno, un suono e una Stratocaster pagata pochi dollari. Consigliatissimo.
Nessun commento:
Posta un commento