Nel 1956, Colin Wilson tirò un sasso contro lo specchio per celebrare l’essenza dell’outsider, “un uomo per il quale il mondo, per come lo vede la maggior parte delle persone, è una menzogna e un inganno”. The Outsider esplorava le connessioni tra “un senso di alienazione dalla società” e “una questione di disciplina individuale” che nell’articolarsi di sensibilità e ossessioni, sperimentazioni e osservazioni, nutre e sospinge “un sentimento violento di pura affermazione”. L’identità dell’outsider, con l’istintiva necessità di manifestarsi a un livello più ampio e verso orizzonti inesplorati, lo posiziona verso “maggiori possibilità spirituali” ed è qui, in estrema e provvisoria sintesi, che si intravede la natura della simbiosi tra Religione e ribellione. Un anno dopo, il sasso lanciato con The Outsider Colin Wilson mostra il reticolo delle spaccature e delle crepe di quel riflesso in frantumi: il disprezzo per la futilità della vita, il rifiuto della limitata gamma di opzioni proposte e/o imposte dalla civiltà moderna, quel rumore di fondo che “non concede tempo per la pace e la contemplazione”, costituiscono il carburante spontaneo della ribellione. La religione, che deve necessariamente comporsi di “mito, dogma, rituale” è relativa ed è intesa in un senso molto più ampio dell’articolazione dell’espressione della fede in forme istituzionali o spontanee. Per Wilson e per la disposizione in sé dell’outsider sono più importanti la poesia (“Ogni poeta sa che il valore reale di un uomo è determinato dalla profondità della sua esperienza emotiva. Sono quelle intuizioni profonde del suo stesso essere che danno veramente all’uomo il dominio su se stesso e su tutto il mondo”, la filosofia (“Il segno della grandezza è sempre l’intuizione, non la logica, ma la nostra civiltà purtroppo ha fatto una distinzione immaginaria tra le due cose, che si chiama filosofia”) e la letteratura. Con queste premesse, Colin Wilson si addentra in altrettanti ritratti, bio-bibliografici e critici, di Böhme, Pascal, Wittgenstein, Kierkegaard, Swedenborg, Whitehead, Ferrar, Newman, Law e, forse più di tutti, Bernard Shaw. Sono loro gli outsider per eccellenza, ma nel suo estendersi, Religione e ribellione ospita l’inferno e il paradiso secondo Rilke, Rimbaud e Verlaine, Joyce e Beckett, Elliot e Blake, Fitzgerald e Hemingway e infine Dostoevskij a ricordare che “tutte le creature viventi vivono principalmente per istinto e l’uomo non fa eccezione. Ma quando una civiltà raggiunge la sua fase di declino, l’istinto di salvezza non è sufficiente: l’intuizione ha bisogno della punta di diamante di uno sforzo intellettuale conscio”. Nella ricchezza della sua esposizione, più che sostenere e illustrare la tesi e le cause dell’outsider, Colin Wilson si abbandona a raccontarne le gesta, le idee, le illusioni e le visioni, in fondo seguendo una sola convinzione, dichiarata in modo molto chiaro ed esplicito fin dall’inizio: “Credo che gli esseri umani sperimentino una gamma di stati mentali ristretta quanto i tre tasti centrali di un pianoforte, mentre sono convinto che la gamma di possibili stati mentali sia ampia quanto l’intera tastiera, e l’unico scopo e compito dell’uomo sia di estendere la propria percezione dalle solite tre o quattro note all’intera tastiera”. Una metafora perfetta che da sola riassume tutta l’erudita esperienza di Religione e ribellione.
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