Ha ragioni da vendere Neil Gaiman quando sostiene che “la narrativa ci permette di entrare in altre menti, in altri luoghi, di guardare con altri occhi. E poi nel racconto ci fermiamo, prima di morire, oppure un sostituto muore per noi, che restiamo in buona salute, e nel mondo di là dalla storia voltiamo pagina o chiudiamo il libro, tornando alla nostra esistenza”. In quel ciclo infinito, American Gods è un viaggio americano “in bilico tra diorama e incubo” e nella mitologia di uomini e dèi che lo popola i rapporti sono mutevoli e fragili, come un pulviscolo che si disperde tra sogni, visioni e allucinazioni, mentre un paesaggio multiforme scorre un istante dopo l’altro, come uno schermo su cui proiettare storie e miti. In effetti, come scriveva Wendy Doniger O’Flaherty: “Gli dèi sono attori che interpretano ruoli reali soltanto ai nostri occhi; sono le maschere dietro cui ciascuno intravede il proprio volto”. L’America (si suppone, non a caso) è un campo aperto e la dimensione fantastica e quella reale delle “strade blu” che si intrecciano e si sovrappongono ne accentuano le proporzioni e le asperità: è “una terra di sogni e di fuoco” ed è anche “l’unico paese al mondo che si domanda chi è” e deve confrontarsi con altre forme di idolatria, laddove è necessario uno sforzo di comprensione in più, proprio perché, come dice Neil Gaiman, “è sui sensi che si fondano le nostre convinzioni, sono gli unici strumenti di cui disponiamo per fare esperienza: la nostra vista, il tatto, la memoria. Se i sensi ci mentono, allora non abbiamo niente di cui fidarci. E anche se non crediamo a ciò che ci dicono, non abbiamo altro modo per viaggiare che quello di seguire la strada che essi ci indicano, ed è una strada che dobbiamo percorrere fino in fondo”. La rappresentazione di American Gods si avvale di una moltitudine di “simboli”, con alcune connessioni specifiche: le culture ancestrali scandinave ed europee, il Medio ed Estremo Oriente, i Velvet e i Beatles, Stephen King e Thomas Pynchon nell’ombra, trucchi e magie, antiche dinastie e conflitti epocali confluiscono nella vita nella provincia in un patchwork che nell’insieme appare “come il sogno creato dall’umanità per dare un senso alle ombre sulle pareti della caverna”. Più di tutto conta la dimensione onirica, dove il linguaggio e le immagini fluttuano senza regole apparenti, e qui, piuttosto del citatissimo Erodoto, è più appropriato ricordare Eraclito quando diceva: “Coloro che sognano, sono coautori di ciò che accade nel mondo”. La domanda sottintesa da American Gods è: anche gli dei sognano? Shadow, protagonista suo malgrado di questo crepuscolo leggendario, cerca di capire (“Non fate che parlarmi di queste cazzo di regole, ma io non so neanche a che gioco state giocando”) il suo ruolo, ma nell’attrito generato dagli dèi erranti e confusi si manifesta una chiara separazione: “Il vecchio mondo, un mondo di infinita vastità, risorse illimitate e futuro, veniva messo a confronto con qualcosa di diverso, una rete di energie, di opinioni, di abissi”. Il confronto è caotico e nel ritratto a distanza ravvicinata dell’America rurale e del Midwest (e la bucolica Lakeside, Michigan diventa il nucleo attorno a cui ruota gran parte della storia) l’odissea americana tra dèi che si comportano in modo umano troppo umano e città che sono popolate di relitti, trova un percorso altrimenti tortuoso: American Gods si snoda serpeggiando in una serie di tappe in cui Shadow ha modo di affrontare le intenzioni degli dèi che l’hanno reclutato. Essendo un outsider con poco o nulla da perdere, Shadow è testimone di un ribaltamento continuo di fronti, ed è al centro dell’azione, anche se il più delle volte non può fare molto, se non assistere all’evoluzione dello scontro degli dèi. È in missione senza un mandato o è solo un capro espiatorio: la presenza di Shadow rimane enigmatica essendo in balia di decisioni che provengono da identità indefinite e il potere di quelle creature si estende, ma in qualche modo pare incapace di risolvere i conflitti, anzi, li alimenta nel corso dei secoli, perché anche “gli dèi muoiono. E quando muoiono davvero nessuno li piange o li ricorda. È più difficile uccidere le idee, ma prima o poi si uccidono anche quelle”. Il rapporto con loro è sempre dubbioso, ma le moltitudini di esseri che vagabondano per l’America garantiscono lo spettacolo, dato che, come sosteneva Kierkegaard, “gli dèi si annoiavano, perciò crearono gli uomini”. Può essere, ma leggendo American Gods, è facile credere il contrario.
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