Mentre completava uno dei suoi film più intensi, The Last of England, Derek Jarman teneva un diario sui generis di quei giorni, composto da “opinioni, reminiscenze, ritratti di persone e luoghi; e registrazioni audio di interviste sconclusionate ad amici e colleghi”. L’elenco è fornito da Keith Collins nella breve prefazione che ne riassume la frammentaria gestazione ed è tutto sommato molto parziale. Nella sua eterogenea composizione, Ciò che resta dell’Inghilterra si adagia sullo stesso substrato autobiografico di The Last of England, una scelta nata da una consapevolezza espressa così da Derek Jarman: “Ora proietti il tuo mondo privato nell’arena pubblica, e crei la crisi; l’attrito tra il mondo pubblico e quello privato è la tradizione che riveli. Tutto quello che puoi fare è indicare una direzione da prendere a tutti quelli tra il pubblico che vogliono viaggiare. Perciò, mentre ti dissolvi nell’oscurità, pensa al silenzio. Quando tutti hanno imboccato il sentiero noi siamo tutta arte e nessun pubblico”. Un ruolo di primo piano nell’alimentare gli appunti di Derek Jarman tocca al padre, pilota e comandante della RAF, decorato al valore e protagonista della vita familiare. Il ritratto, proprio nel centro di Ciò che resta dell’Inghilterra, raccoglie i sentimenti più intimi e nello stesso tempo esprime il disorientamento di un’intera nazione, seguito alla fine della seconda guerra mondiale. La vittoria non è stata sufficiente, le “ceneri dell’impero” rimbalzano negli anni della Thatcher (siamo tra il 1986 e 1987) e Derek Jarman ammette senza remore che “la decadenza, lo imparai in fretta, era il primo segno di intelligenza. È importante mettere la danza in una prospettiva storica”. The Last of England e Ciò che resta dell’Inghilterra si spendono entrambi con generosità (“Noi danzavamo mentre altri mettevano radici e contraevano mutui, ma il terreno era avvelenato”), e Derek Jarman ha sempre negato l’avversione contro il proprio paese, piuttosto le sferzate riguardavano le condizioni brutali della vita in quegli anni: “È una storia d’amore con l’Inghilterra. Non è un attacco. È un attacco contro quelle cose che avverto personalmente come senza valore. Cose che hanno invaso il circuito commerciale della vita inglese. Non si tratta di un attacco all’Inghilterra. È il contrario”. In questo, Derek Jarman è stato particolarmente attento alle deformazioni della musica pop (“Una cultura orientata dalle mode adolescenziali e dal criterio del feedback immediato non è molto interessata alle idee. In questo modo la sopravvivenza di un’artista è una moda o un capriccio passeggero”), grazie anche alla sua collaborazione con gli Smiths per The Queen Is Dead (“Nell’ultimo decennio, il video musicale è l’unico ambito nel quale il linguaggio cinematografico si è evoluto, ma lo scopo è sempre stato quello di ottenere un impatto immediato, il che spesso comporta un risultato appariscente e superficiale”). D’altra parte l’omaggio ad Andy Warhol, all’inizio di Ciò che resta dell’Inghilterra, era già un segnale palese nel condividere l’idea che “l’arte è furto” e che, di conseguenza, “siamo tutti complici nel mondo onirico dell’anima; non è soltanto individuale, ma generale; facciamo questi collegamenti in continuazione”. Il canovaccio è abbondante e variopinto: ci sono Tilda Swinton e Pasolini, la realizzazione di The Last of England giorno dopo giorno, Pensieri domestici e le Ceneri dell’impero, appunti e poesie, in un ordine che emerge per gradi dall’istinto creativo di Derek Jarman, che resta convinto della forza intrinseca della curiosità: “Il fatto stesso di ricercare è la mia forza motrice. Non credo nella pentola d’oro in fondo all’arcobaleno, ma credo nell’arcobaleno”. Anche questa era una piccola anticipazione: la sua teoria dei colori (Chroma) arriverà da lì a qualche anno e sarà il testamento finale di un grande visionario.
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