Una canzone misteriosa risuona nella notte di Istanbul. Non c’è nessun musicista, eppure la ascoltano tutti, perché “ognuno ha un ritornello segreto. Per tutta la vita lo ripete di nascosto”. La sente soprattutto Salih, che è appena stato licenziato e ha deciso di partire per il Brasile, che potrebbe essere ovunque, essendosi convinto che “tutto era avvelenato, ormai. Nulla scorreva più. Da moltissimo tempo. Nemmeno un’apocalisse riusciva a scoppiare in tutto e per tutto. O magari l’apocalisse era in realtà una cosa così: non si trattava di una catastrofe gigantesca che aveva un inizio e una fine e non risparmiava nessuno, bensì di un qualcosa che si protraeva nella vita quotidiana attraverso strane, minuscole rotture dell’ordine, e che ogni giorno intaccava un punto nuovo, portandolo alla distruzione. Non era niente che avesse un inizio improvviso e raggiungesse il compimento in modo deflagrante, o che generasse un cambiamento, nulla che ricordasse un crollo; piuttosto, somigliava all’istante appena prima del crollo, niente che promettesse una rinascita; un tempo intermedio rimasto costretto chissà dove, una stasi assoluta nell’evoluzione del genere umano, una crisi, un malanno, una glaciazione che coinvolgeva l’intera umanità”. Questa è la condizione in cui si ritrova Salih: è a un bivio, vuole partire perché il conflitto latente sul lavoro (è un cronista) è esploso in modo irrimediabile, e non gli resta alternativa, se non andarsene. La cena d’addio è sottolineata da un’esplosione di sapori che, per contrasto, si riflettono negli umori degli ospiti. Oltre alla partenza di Salih, si devono confrontare con un’imprevista e stramba confessione e l’improvvisa dipartita di due di loro, compresa la proprietaria del ristorante, perché “quando la vita desidera veramente una svolta, intervengono le combinazioni”. Il bistrò delle delizie ne ospita in quantità, e Salih, immobile cerca di riordinare i suoi trascorsi, a partire dalla liaison fatale con Nihan come se dovesse organizzare i bagagli, sapendo che “ogni viaggio, in fondo, si compie non nello spazio ma nel tempo”. E così nell’elaborato menù che Il bistrò delle delizie serve per l’occasione, Salih ricorda Nihan a Berlino, Praga, Lisbona, Roma, Barcellona, Avignone, Vienna, città che sono soltanto ricordi e tappe e a ribadire che “la comunicazione impossibile dell’amore aggiunge ulteriori stratificazioni al tempo, le seziona con un dolore assoluto e impareggiabile e dona un senso allo spazio”. In tutto questo, Tuğba Doğan lascia fluire le parole, lavorando di cesello sull’atmosfera, sulle sfumature, attorno a un’impostazione che è insieme modernissima e crepuscolare: il suggerimento, esplicito, è ammirare Il bistrò delle delizie come I sonnambuli di Edward Hopper, quale riferimento dei riflessi dell’alienazione in una grande metropoli. Istanbul, come tutta la Turchia, è una ragnatela ombrosa avvolta nel silenzio, che è sinonimo di sopravvivenza. Il dilemma di Salih è comprendere che la partenza non può essere la soluzione e può essere scambiata per una fuga anche se ormai è inevitabile perché “a volte la gente di convince di essere accomunata da uno stesso sentimento per poter alleggerire la propria solitudine, mentre in realtà chissà quali menzogne sta vivendo”. La storia si annoda tra ombre e luci, Tuğba Doğan condensa “accenti, toni, allusioni, richiami, approvazioni, obiezioni” e la logica della scrittura corrisponde al destino della lettura perché “leggendo, una persona smette di essere se stessa e si trasforma in altre, diventa molti individui nello stesso istante”. Il bistrò delle delizie diventa così una sorta di buco nero dove il tempo collassa e Salih si ritrova a lottare con la memoria. Se “la scrittura è capace di far dimenticare tutto, perché imprigiona ogni cosa nelle parole selezionate in quel preciso momento, mentre la memoria non funziona affatto così, ogni volta riorganizza, raffigura, inventa”, per Salih diventa una danza di fantasmi e una tortura. Non può sfuggirgli, e così è la musica che “prima ti fa credere che esista un mondo totalmente diverso, bellissimo, ma poi quel mondo non ti restituisce nulla”. Affascinante.
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