C’è una questione che ricorre spesso nel libro di Bill Buford ed è: perché nessuno chiede mai a un batterista della sua vita, della famiglia, dei legami? Il libro risponde a quell’interrogativo partendo da un’altra serie di domande che nascondono altrettanti luoghi comuni. Come hai cominciato? Da dove prendi il sound? Ti piacciono le interviste? Vedi ancora gli altri? E soprattutto: sì, ma di giorno cosa fai? Questo succede perché Bill Bruford non è Robert Fripp (quella è un’altra delle domande fondamentali: com’è lavorare con lui?) e pur essendo un eccellente musicista, ha sempre avuto un rapporto controverso con il successo e la popolarità. Come dice lui stesso in un passaggio piuttosto eloquente: “Si dice che il primo obiettivo di un musicista sia di sopravvivere al fallimento, il secondo di sopravvivere al successo. Io ho dovuto sopportare il primo solo per poco tempo e dal secondo non ho ricevuto danni permanenti, quindi mi considero relativamente fortunato e resto un accanito sostenitore della via di mezzo”. Dagli inizi, quando la sorella gli regala un paio di spazzole e per Bill Bruford “il ritmo sembrava ovunque ma nessuno sembrava accorgersene” all’esordio nel 1968 (e da allora è uno dei maggiori batteristi sulla scena internazionale), fino all’approdo ad alcuni tra i maggiori gruppi della seconda metà del ventesimo secolo dagli Yes ai Genesis ai King Crimson e alla ritrovata identità di jazzista, la ricostruzione della sua biografia è sincera, ricca di aneddoti, di spunti polemici ed è persino dolente nel raccontare il suo intimo rapporto con la musica. Nella parte conclusiva, quando Bill Bruford riflette sul suo annunciato ritiro diventa una specie di confessione a cuore aperto: “Con questa cosa potente che chiamiamo musica ognuno gioca a proprio rischio e pericolo. La musica, non intesa come puro divertimento, bensì come energia, è una forza che produce effetti su chiunque. I ricercatori cominciano a ipotizzare che il suo uso, o il suo abuso, giochi un ruolo ben più importante di quanto la gente abbia voluto credere finora, nel determinare il carattere e la direzione della civilizzazione. Il potere della musica è sfaccettato, talvolta incredibilmente violento, ed è impossibile comprenderlo pienamente”. Ma nel libro c’è di più perché in quarant’anni di attività Bill Bruford non è stato soltanto un (grande) batterista, ma per sostenere la musica si è ritrovato a reinventarsi in dozzine di ruoli diversi e a confrontarsi con avvocati, giornalisti, promoter, manager e un tempo che non è mai stato il suo. La sua storia diventa una specie di manuale di sopravvivenza per chiunque decida di dedicare a uno strumento qualcosa in più delle ore lasciate a un hobby. Ci sono così tante domande che rimangono senza risposte da pensare che Bill Bruford voglia suggerire di approfondire quel dubbio che tutti fingono di non vedere perché l’unica, vera domanda è sempre quella: sì, ma ne vale la pena? In molti di momenti di terrore (al Madison Square Garden, in quei minuti interminabili in cui la sua nuovissima batteria elettronica non ne vuole sapere di funzionare, per esempio) Bill Bruford sembra arrendersi all’evidenza, ma poi nella sua lunga e prolifica esperienza fissa un limite importante: “La musica, tanto per chi l’ascolta quanto per chi la fa, consente di vivere l’esperienza reale di un possibile stato ideale”. E, sì, ne vale la pena.
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