La protagonista di Buio è una donna che comprende molto bene la condizione aggrovigliata dei suoi pensieri: “Noi sembriamo tutti un po’ fuori luogo, sempre un po’ maldestri, sudaticci e trasandati, è già un po’ che ho capito che si può riconoscere da queste cose. Invece loro, gli altri, emanano sempre una pittoresca eccellenza, come se sbucassero dallo schermo del cinema”. Personaggi, interpreti, ed è già una separazione nitida, frutto di una consapevolezza sorprendente, che si manifesta approfondendo la distinzione con il resto del mondo, quello che si presume viva nella normalità: “Hanno avuto bisogno di una forma, che gli abbiamo dato noi, e loro ci hanno costruito dentro qualcosa che noi non potremo mai comprendere”. Questa presa di posizione si applica alla perfezione al fratello Franciszek e alla moglie Wanda che la ospitano, dopo la sua degenza in una clinica per disturbi mentali, ma che sono assenti e freddi. Lei, senza nome e con una fragile identità, deve accontentarsi: “Sto vivendo come gli altri, senza pensare di essere così diversa, ma ho visto quel che ho visto”. Seguirla ne Buio significa affondare nelle ombre dell’infanzia: “Quanti ricordi. Il passato non mi è mai vicino, ma ora ce l’ho qui a portata di mano, bisogna solo volerlo vedere. È come togliere la luna dal cielo, c’è solo da diventare di nuovo bambini e credere di poterci riuscire”. È lì che si sdoppia perché a sua volta Buio è un luogo nella Pomerania, ma è anche una meta irraggiungibile della mente dove può succedere di tutto, anche la ricomposizione di un delitto, di una tragedia, di un mistero: “Mi volto verso un’eco di passi leggeri. Dietro di me ci sono io bambina, col mio vestito estivo, i piedi scalzi sporchi di fango e aghi nel bosco”. Nel Buio, i segreti si incrociano attorno a Jadwiga Rathe e alla sua inspiegabile fine. Essendo un’attrice shakespeariana, viene spontaneo pensare all’Enrico IV quando si dice che “i pensieri, schiavi della vita, e la vita, pagliaccio del tempo, e il tempo, che contiene tutto il mondo, devono fermarsi”. Sarebbe l’ideale, ma gli elementi naturali e soprannaturali formano l’ibrido vischioso in cui il doppelgänger della protagonista si muove in cerca del suo destino. Buio diventa davvero nebbia e tenebra ed è rivelatore l’inserimento degli amati versi tratti da Calamus, una delle sezioni più intense delle Foglie d’erba di Walt Whitman. La stessa origine del titolo, che riprende il nome di una pianta aromatica che ha il suo habitat nelle paludi e l’essenza colma di contraddizioni, si associa ai contrasti tra le luci (lontane) di Varsavia e le foreste impenetrabili, le visioni oniriche e le asperità terrene, due guerre mondiali (è il 1935, ma c’è un continuo feedback temporale verso il 1914), altrettante invasioni (quella nazista prima e quella sovietica poi) che si affastellano tra passato e futuro. Nel Buio è tutto doppio e il senso di Anna Kańtoch per il tempo fluttua avanti e indietro assecondando gli estremi e affrontando un livello dopo l’altro inoltrandosi in aree oscure dove la psicologia è appena sufficiente a definire un campo d’indagine, di sicuro abbastanza complesso da richiedere ben altre misure. Un corto circuito tra l’infanzia e l’incombenza dell’età adulta (“La cosa più importante è che quanto più sbiadiscono i ricordi adulti, tanto più vividi si fanno i ricordi dell’infanzia”), ha bisogno di un altro tipo di presenza, e di coscienza. Questa è la frattura che Buio prova a comporre, la distanza che bisogna compiere dato che “l’essere adulti dev’essere proprio questo, un tocco freddo e liscio, che attira e terrorizza al contempo”. La scrittura di Anna Kańtoch è acido sul velluto, la carezza di un fantasma che lascia brividi di gelo, un volto deformato da un specchio, un silenzio pieno di enigmi perché “è proprio questo il nostro problema, non possiamo fidarci di ciò che sentiamo o vediamo”. Si chiama sensibilità, ma il più delle volte è considerata una malattia.
Nessun commento:
Posta un commento