“Tutti gli inizi sono poetici, il seguito già meno” scrive Abdourahman A. Waberi al centro di questa intensa polifonia della guerra e dell’esilio, due ferite che, nei secoli, hanno sottolineato a lungo la vita dell’Africa. Bisogna proprio addentrarsi in Transit per comprendere fino in fondo la sua intuizione, che è anche una lettura specifica del titolo. Il luogo d’elezione (e di partenza) del romanzo è Gibuti, una vastità di deserto che si affaccia sull’oceano, ma i protagonisti invisibili di Transit (Bashir e Harbi) si ritrovano nella terra di nessuno dell’aeroporto Charles De Gaulle di Parigi. Dall’incontro fortuito e del tutto casuale (i due in comune hanno soltanto la vaga cognizione dei profughi e l’amarezza dell’esodo) si dipanano e si intrecciano le reciproche storie, che affondano tanto nella drammatica realtà dell’Africa in fuga quanto nelle radici della cultura orale e nomade. Per entrambi l’unica consapevolezza è che “ora come ora siamo in sospeso su questa terra senz’altra promessa che quella dell’umiliazione, in compagnia di tutti gli altri rifiuti del pianeta, allo stesso tempo carnefici, vittime e testimoni”. Nella condizione estrema di passaggio si accorgono che “siamo e rimaniamo in definitiva dei granelli di sabbia arenati nel deserto di un altro. Nessuno che ci insegua e nessun segno di ospitalità all’orizzonte. Non abbiamo nemmeno più le nostre stuoie sulle quali dormivamo dopo aver sollevato il telo che funge da parete divisoria tra l’angolo dei bambini e quello dei genitori. Ci siamo lasciati dietro di noi le nostre storie, le nostre melodie, i nostri testi di magia e i nostri antenati. Il pericolo che incombe su di noi è questo: se si vive esclusivamente nel presente si rischia di essere sepolti con il presente”. Abdourahman A. Waberi realizza così un romanzo a più e più voci, architettando strutture ardite ma anche estremamente fluide, grazie a una lingua e a un ritmo tambureggiante, che avvince e sorprende: “Tutti quanti si stordiscono di dicerie, dicono: sì sì ci vendicheremo questa volta qui, per non pensare ai loro guai. Le nostre pance sprigionano un rumore d’acqua in piena, un rumore di torrente che scorre sulle pietre. Come se divorassimo a quattro palmenti il mango amaro che fa schifo persino agli insetti e alle formiche”. Transit offre uno sguardo privo di retorica, denso di argomenti, con un taglio narrativo fresco e a tratti sorprendente sommando le forme ancestrali di racconto (“Tutti questi sortilegi si agitano nella bocca dei nostri cantori, i barometri dell’opinione pubblica che temono il silenzio del corpo. La lingua del fantastico li spinge a spiegare i misteri nascosti della natura e dell’umanità riunite”) a cui si alterna la musica occidentale, dal blues al rock’n’roll. Lungo queste particolari vie dei canti il tormento del conflitto, l’anelito all’indipendenza (“Non dimentichiamo che noi non abbiamo mai accettato la dominazione del colonialista. Anche davanti al fatto compiuto e alla legge del più forte, noi resistevamo in sordina, in segreto”), la mera sopravvivenza si legano alla memoria è non è un caso che il più giovane tra i personaggi di Transit, Abdo-Julien, affermi: “Gli erranti, gli apolidi, che sono i veri e propri creatori, come i nomadi del deserto, servono solo a una cosa almeno quaggiù in terra. Sono le nostre guide, di questo il nonno è convinto, quelle che ci indicano i sentieri da percorrere per la traversata dell’esistenza. Ci raccontano inoltre, e con innumerevoli dettagli, il loro carosello affettivo”. È così Abdourahman A. Waberi ritrova “il potere di trasformare in parole il canto più profondo della terra, diffidando degli spiccioli di parole di tutti i giorni” e permeando Transit di una forza inequivocabile.
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