Il sogno inglese comincia proprio bene con Churchill che sfoggia un taglio di capelli mohicano bello colorato. È un’acconciatura che appare con una certa frequenza nella storia e ogni volta identifica tribù particolarmente turbolente. Lo erano i nativi sulle rive dell’Hudson, così come i paracadutisti della 101ª divisione aviotrasportata, conosciuti come Screaming Eagles che si lanciarono sulla Normandia e resistettero a Bastogne. La cresta è uno dei simboli ricorrenti del punk e dato che Nick Kent, partecipe e transfuga della prima ora, l’avrebbe chiamata “la politica dell’apparenza” pare giusto applicarsi partendo da lì, dallo stile. La vivisezione del punk (e dei Sex Pistols) e operata da Jon Savage è un lavoro oculato che lo colloca all’interno di una realtà, quella della Gran Bretagna, tutta da decifrare (e spesso insondabile), ma che poi è destinato a diventare “simbolo globale della disaffezione giovanile, della ribellione, del puro e semplice problema. Dopotutto, se nulla viene contestato, nulla potrà cambiare”. Il background internazionale attingeva al “mare delle possibilità” di Patti Smith e a buchi di New York dove “il procedimento di riciclaggio dei rifiuti” aveva resuscitato il rock’n’roll attraverso Ramones, Television, Talking Heads e, prima di tutti, New York Dolls. Nell’emergere impetuoso di “una cultura sotterranea con riti incomprensibili per tutti gli adulti”, Jon Savage sa trovare la giusta collocazione per ciascun personaggio coinvolto, in un modo o nell’altro: l’improvvisata sartoria di tagli e graffi di Richard Hell è diventata con Vivienne Westwood e Malcolm McLaren l’idea di vestire di nuovo un mondo decadente, attribuendo alle mille motivazioni del punk quasi “un fine morale”. I Sex Pistols arrivarono come un Frankenstein di contraddizioni: si scontrarono con l’industria discografica eppure la scossero dal torpore a cui si era abituata, più venivano censurati e più diventavano un fenomeno, negavano il futuro e nello stesso tempo lo inventavano perché come disse Joe Strummer, uno che se ne intendeva: “Erano di un altro secolo”. Il sogno inglese, mai titolo è stato più appropriato, rende attuale tutta l’esperienza dei Sex Pistols e, per estensione, del punk, inteso come “uno stile di vita devoto e appassionato che ignorasse le convenzioni ortodosse, rispettando allo stesso tempo un rigido codice di comportamento”. È più la storia di una mutazione, che di una rivoluzione: assecondando i principi di azione e reazione secondo Jon Savage “gli stili pop divennero simboli di branco e tribù, dunque non qualcosa da esibire per una stagione, bensì un modo di vivere, un mezzo per costruirsi un’identità fuori da una struttura di classe sovente immobile e spietata”. Le vicende dei Sex Pistols, narrate come struttura portante del Sogno inglese, avvolgono e si intersecano con quelle dei Clash (“Il punk definito per sempre come realismo sociale”), delle Slits, degli Adverts, dei Buzzcocks, dei Jam, tra i paesaggi ballardiani di Londra e Manchester dove Jon Savage ricorda che “chi fa spettacolo è interessante solo in funzione delle emozioni che provoca, o delle situazioni che catalizza: è il pubblico a conferirgli il potere che ha”. La placida assuefazione al pub, alla BBC e alla monarchia venne travolta: “il punk annunciò se stesso come un presagio” e si rivelò una sferzata tale che lo “scarto culturale” ha assunto le dimensioni di una vera e propria faglia all’interno della cosiddetta civiltà occidentale. È stato possibile solo perché, come ha detto uno dei protagonisti, Jamie Reid: “il punk era verità dissimulata dall’inganno”. Per spiegare il suo paradosso, Il sogno inglese (per l’occasione ampliato, aggiornato e arricchito rispetto alla prima edizione del 1991) ci mette settecento pagine che, da Sid Vicious a Paul Virilio, dalle rivolte alle clausole contrattuali, da Bob Marley alla Thatcher, non nascondono nulla e danno al punk il posto che si merita, in mezzo alla strada, da qualche parte, ovunque ci sia bisogno di una bella scossa.
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