Quando Jarvis Cocker, già deus ex machina dei Pulp, svuota la soffitta avvia un “percorso di scavo interiore” che è, sì, uno slalom tra le masserizie e gli ammennicoli, ma soprattutto un “inventario” pop leggero & brillante nello stesso tempo. L’elenco di questa bizzarra archeologia personale comprende un po’ di tutto, dalle istantanee in vacanza a Ibiza ai Thunderbirds, dalla prima chitarra ai nastri di John Peel, da 2001: Odissea nello spazio ai dischi di Elvis Costello, Echo & The Bunnymen, Stranglers e Slits è un continuo rimbalzare di “ossessioni/ispirazioni”, prima tra le quali, rimane la musica. Per Jarvis Cocker, come per tutti alla sua età, sarà determinante il punk perché “era una rottura. Uno strappo netto con il passato. Un rifiuto della narrativa ufficiale. Non voleva adeguarsi. Esigeva un nuovo sound, nuove idee. & nuovi vestiti”. Apriva anche inedite possibilità all’adolescente di Sheffield nell’era della Thatcher, il convitato di pietra di Good Pop Bad Pop. La riduzione del linguaggio operato dalla propaganda politica attingeva senza alcun pudore proprio dalla spontaneità e dalla semplicità del pop che secondo Jarvis Cocker “era emancipazione. Era accessibile a tutti: bastava accendere la radio o la televisione o aprire una rivista. Il pop è stato creato per soddisfare i nostri desideri primordiali”. Dal ripostiglio di Jarvis Cocker appare anche uno strano apparecchio televisivo a gettoni che forse non si trova più nemmeno nei musei, ma che per il futuro leader dei Pulp ha rappresentato la chiave d’accesso a un vasto catalogo di possibilità: “Le classifiche pop britanniche erano una folle collisione di affari rampanti & democrazia popolare: la gente votava comprando i dischi & poi seguendo la loro ascesa in classifica. Era un passatempo nazionale. Addirittura ricordo certi ragazzi che portavano a scuola la radio per ascoltare le classifiche di metà settimana durante le pause. Quella sì che è dedizione. Erano popolari & commerciali, ma soprattutto, il che era decisivo, potevano partecipare tutti. Potevano accadere cose strane”. Attraverso quel piccolo tubo catodico, diventato via più grande, Jarvis Cocker riesce a individuare “la magia del pop” che poi è la “la sua imprevedibilità. Una hit doveva avere quel misterioso non so che capace di catturare l’immaginario popolare”. Il rapporto con il mezzo televisivo, in particolare, sarà ambivalente perché se può apparire che “cantare in playback è più reale” è anche vero che “la televisione non mostra il quadro completo”. Lì Good Pop Bad Pop compie un po’ una svolta e la cernita di Jarvis Cocker alza il tiro quando dice: “La vita è casuale, sì, ma quanto ci piacciono le storie. Vogliamo disperatamente che tutto abbia un senso. Quindi incastriamo le cose in modo tale che sembrino fare proprio questo. Così che possano raccontarci una storia. È come vedere volti nelle nuvole o i contorni di figure mitiche nel cielo di notte. Li vediamo perché vogliamo vederli. Proiettiamo un senso, una forma o un significato su ciò che ci circonda perché ci fa sentire meglio”. Alla fine, Good Pop Bad Pop è “un libro sul processo creativo” che si legge con disinvoltura a partire dal fatto che “una canzone è un’avventura che vivi dall’interno” per proseguire nell’incontro con Leonard Cohen, con il cinema di Fellini per arrivare ai Velvet Underground e, come è giusto che sia da lì, ad Andy Warhol che “aveva cambiato il modo delle persone di vedere la realtà quotidiana tutt’intorno. & dopo averlo fatto, il mondo intero si è accodato”. È molto probabile che sia stato lui, se non altro a livello subliminale, l’ispiratore dell’idea che “una cultura potesse rivelare di più su di sé attraverso i propri scarti anziché gli illustri (o presunti tali) artefatti”. È proprio con quell’afflato che Jarvis Cocker tende a raccontare “tutta la vita umana in forma pop” riuscendo a restare in equilibrio tra i rimasugli del passato e la propensione verso il futuro, ancora da scrivere.
Nessun commento:
Posta un commento