Serpenti, uccelli, uomini e donne in cerca di un amore che non c’è, alberi, fiumi e intersezioni tra esseri senzienti e il resto della natura, una principessa russe e Sidney Poitier: nelle Voci all’imbrunire di Mia Couto si sommano simbologie e mitologie, la dimensione del sogno e della stregoneria, i bianchi e i neri, l’imperialismo e le ribellioni, le invocazioni e le carestie, il Mozambico e l’Africa intera. I contrasti sono ridotti in una scrittura volitiva, che riesce a contenere le vestigia coloniali e animiste, le “mura” urbane e la vita nelle lande rurali e desertiche, addensandole in storie che partono “da qualche cosa accaduta nella realtà”, ma come “se fosse successa all’altro capo del mondo”. I racconti hanno svolte e risvolti sorprendenti a partire da Il giorno in cui esplose Mabata-Bata, che comincia con un bue che si disintegra nell’aria. Il giovane pastore Azarias destinato dal protervo zio Raul a custodirlo rimane senza parole: “Fissò la disgrazia: il bue polverizzato, eco di silenzio, ombra di nulla”. In quel momento Azarias pensa a un fulmine o a un intervento divino, per poi scoprire che il povero animale è saltato su una mina. Le condizioni del Mozambico si evidenziano nei racconti di Mia Couto dove la realtà della guerra si somma alla magia e alla durezza della vita quotidiana: “Ciò che più duole, nella miseria, è l’ignoranza che essa ha di se stessa. Messi di fronte all’assenza di tutto, gli uomini si astengono dal sogno disarmandosi del desiderio di essere altri. Esiste nel nulla un’illusione di pienezza che fa fermare la vita e imbrunisce le voci”. C’è un continuo andirivieni nei dilemmi dei personaggi di Mia Couto perché “il dolore è polvere che ci annebbia la luce” e la rivoluzione non riesce nemmeno a prendersi cura dei sopravvissuti come si può vedere in La storia dei comparsi, dove la burocrazia e la corruzione trasformano le persone in creature invisibili. Le reazioni sono tra le più disparate. Per esempio, il personaggio principale di Le balene del Quissico, “unico abitante della tempesta, Bento João Mussavele si addentrava nel mare, si addentrava nel sogno”, prova ad accontentarsi e “se ne stava lì a sedere e basta. Nient’altro. Proprio così, sedutissimo. Il tempo non se la prendeva con lui. Lasciava fare”. Il protagonista di Alla fin fine, Carlota Gentina invece recita nell’incipit: “Io siamo tristi. Non sto sbagliando, dico bene. O forse: noi sono triste? Perché dentro di me non sono solo. Sono molti. E tutti questi si contendono la mia unica vita. Avremo le nostre morti. Ma il parto fu uno solo. Eccolo, il problema. Per questo quando racconto la mia storia mescolo, mulatto non di razze ma di esistenze”. Potrebbe essere l’identità dello stesso Mia Couto che altrove confessa: “Ho bisogno di essere un altro per essere me stesso”, e riesce a raccontare il dolore dell’illusione con La bambina dal futuro contorto, un racconto straziante, con il padre che, di fatto, tortura la figlia nella speranza di trasformarla in contorsionista, mentre “il tempo si riempie di nulla” e ogni sforzo è legato a una notizia che vaga nell’aria: “Ma in una terra così piccola è avvenimento soltanto ciò che viene da fuori. La cosa di cui si parla non è mai un fatto locale. Viene sempre da fuori, scuote le anime, incendia il tempo e poi si ritira. Se ne va così in fretta da non lasciare neppure braci con cui gli indigeni possano riaccendere quel fuoco, neanche se lo vogliono. Il mondo ha dei posti in cui la sua millenaria rotazione si ferma e riposa. Quello era uno di quei posti”. Lo sa anche Patanhoca, il serpentaio appassionato quando dice che racconterà come a prendere forma non sia “proprio la storia”, ma “pezzetti di storia. Pezzetti sbrecciati come le nostre vite. Riuniamo i frammenti, ma il mosaico non è mai completo”. E nelle Voci all’imbrunire si ritrova anche Mia Couto quando ammette che “nel tessuto della vita intreccio la lotta in cui divengo” e nel percorso si fa affascinante e coinvolgente.
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