mercoledì 12 febbraio 2025

John Berger

Capita che John Berger venga buttato fuori da un museo come un outsider qualsiasi, quasi a ricordare che “la sciatteria è un promemoria della farsa che la vita rischia di essere”. Per tutta risposta e per nulla intimidito, colpevole soltanto di un’eccessiva attenzione alle opere esposte, Berger si affida a un’intuizione: avuto in regalo un taccuino lo immagina appartenuto a Baruch Spinoza, il filosofo dell’Etica, che, a quanto pare, era anche vicino di casa di Rembrandt. È una luce ingannevole che si protrae da uno schizzo all’altro, ma nell’ardita associazione Berger ricorda ribadisce come “noi che disegniamo lo facciamo non solo per rendere visibile qualcosa agli altri, ma anche per accompagnare qualcosa di inevitabile alla sua incalcolabile destinazione”. Si tratta di forme che vanno consolidandosi, sia nel tratto che nella scrittura ed è così che succede “quando una storia ci colpisce e ci commuove, genera qualcosa che diventa, o può diventare, una parte essenziale di noi, e questa parte, piccola o ampia che sia, è, per così dire, la sua discendenza o prole”. L’estetica di ogni disegno, che “ha una propria raison d’être, una propria speranza di essere unico”, diventa per Berger lo strumento per l’identificazione con Bento alias Baruch Spinoza, che lo conduce a frequenti divagazioni “per arrivare a dare un senso a quel che prima vista era caotico”. Le osservazioni sulla vita di ogni giorni e i filtri della pittura, e delle arti visive in genere, si sommano attorno a ritratti di persone notevoli nella loro normalità. Il dialogo con i protagonisti è continuo, senza sosta e John Berger si conferma, una volta di più, osservatore acuto e profondo, capace di evidenziare ogni singolo dettaglio sia che si tratti di Erhard Frommhold a Dresda (incenerita) sia che parli di Luca, meccanico aeronautico a Parigi o Anton Čechov, Arundhati Roy o Andrej Platonov e infine Woody Guthrie, con ogni probabilità una voce importante per ricordare, una volta di più, che “le speranze sincere, un tempo esemplificate dalle trionfali storie hollywoodiane, sono ormai fuori corso e appartengono a un’altra epoca. Oggi la speranza è un bene di contrabbando che passa di mano in mano e di storia in storia”. Gli incroci letterari, i tanti e diversi modi di vedere, i frequenti richiami all’Etica di Spinoza sono messi in evidenza e annodati da John Berger con un ritmo leggero e andante, che però non perde mai di vista i capisaldi dei concetti complementari di “eredità” ed “esito” che, nella loro articolazione sono la risposta alla domanda che piano piano s’insinua: “Dove deposita, la storia, coloro che l’hanno seguita, e in che stato d’animo sono?”. Con questo, Il taccuino di Bento non solo ricorda in ogni passaggio che “essere desiderati è forse la cosa che, in questa vita, più ci fa sentire immortali”, ma nell’insolita coalizione tra arte e filosofia riesce a trovare una sintesi, se non proprio una definizione, della vocazione di John Berger per lo storytelling sviluppato quando “il rifiuto di chi protesta si trasforma allora nel grido selvaggio, nella collera, nello humour, nell’illuminazione delle donne, degli uomini e dei bambini di un racconto. Narrare è un modo diverso di rendere indelebile l’istante, perché le storie, una volta ascoltate, arrestano il flusso unilineare del tempo e rendono privo di senso l’aggettivo ininfluente”. Una lettura preziosa, che dice molto dello sguardo di John Berger.