martedì 9 gennaio 2018

Derek Jarman

Il crepuscolo di Derek Jarman, che in Chroma, diventa “un libro sul colore”, è una prova di grande coraggio e generosità. E’ il giugno 1993, se ne sarebbe andato in un paio d’anni, e nella sua personale “teoria dei colori” Derek Jarman sa essere erudito, colto e nello stesso tempo semplice e sciolto. Chroma incanta per la misura e l’ispirazione con cui racconta (e sembra di sentirlo, con un filo di voce) il suo rapporto con i colori, come li identifica, li riconosce e li esalta: “Accendete i colori uno contro l’altro e loro canteranno. Non in coro, ma come solisti. Che cos’è il colore della musica celeste se non l’eco del Big Bang nello spettro, che si ripete come un ritornello”. I suoi voli pindarici sono sensazionali, eppure denotano una lucidità sorprendente (quando parla della beneficenza, per esempio: “La beneficenza permette agli indifferenti di apparire generosi e questo è terribile per quelli che dipendono da questa scelta. La beneficenza diventa un grande giro d’affari mentre il governo elude le sue responsabilità in questo momento di disinteresse sociale. Noi ci adattiamo e così i ricchi e i potenti che ci hanno fottuto una volta continuano a fotterci e ci guadagnano sempre. Ci hanno sempre trattato male, per questo se qualcuno ci dimostra la più piccola simpatia esageriamo nei ringraziamenti”) e uno stile libero e poetico, comunque capace di distinguersi (“So che i miei colori non sono i vostri”) e di difendersi (“Mi dicono che vivo ai margini della società, che cosa c’entro se il mondo è storto?”), così come di accertare l’ineffabile essenza dell’arte. Quando Derek Jarman condivide l’idea di colorare “le piccole mappe murali dell’universo”, sa anche che il limite del genio e del destino coincidono perché “il nostro nome sarà dimenticato col tempo, nessuno ricorderà il nostro lavoro, la nostra vita passerà come scia d’una nuvola, e si dileguerà come la nebbia inseguita dai raggi del sole, perché il nostro tempo è il passaggio d’un’ombra, le nostre vite svaniranno come scintille tra le stoppie”. Chroma si conclude nel blu, che poi è il suo blues, prima dell’inevitabile Magia nera e delle appendici Oro e argento (“Non possiedo nulla d’argento e d’oro, ma devo dire che ho ricordi dorati, momenti d’oro e silenzio d’oro, L’oro non è un colore, s’annida invece sopra i colori per esaltarli”) e delle Translucenza e Iridiscenza, ma a quel punto i colori sono riflessi mentre Derek Jarman pensava “che i fantasmi fossero silenziosi, lampi di lucciola che scintillano, creature opalescenti dell’ombra e della notte, oh, come cicalano invece, debuttanti su scalinate di cristallo, materia iridescente. Tra lampadari sfolgoranti danzano un foxtrot, chimere di suoni, alghe oscillanti, sarabande. Quando scompare brindo al mio fantasma con acquavite, luminosa presenza di vita e di morte”. Un testamento accorato, un commiato che era già evidente nell’introduzione (“Nella nostra epoca ci sono molti colori, ma soltanto quattro erano impiegati dai grandi pittori greci. Ogni cosa era migliore quando le risorse erano poche. Al giorno d’oggi, è il pregio dei materiali e non il genio degli artisti che la gente cerca. Ciò a cui il pubblico è veramente interessato ora sono i realistici ritratti dei gladiatori. Ogni cosa è l’ombra d’un passato glorioso. I colori svaniranno nel crepuscolo della storia) e poi in quella frase, indimenticabile: “Il tempo è ciò che impedisce alla luce di raggiungerci”. La legge della relatività, a colori. Toccante.

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