Il numero 8, considerato simbolo della fortuna, prosperità e ricchezza in Cina (in Giappone è addirittura sacro) deve aver influito nella scelta di avviare la politica del Figlio unico nel 1980. Un programma di ingegneria sociale che puntava a ridimensionare la questione demografica, che è sempre “la” questione, sia quando è in tumultuosa espansione (all’epoca, in Cina), sia quando non lo è (in Italia, per esempio). Mei Fong riprende il discorso in un tripudio di 8, perché parte a cavallo del 2008, tra il tragico terremoto nel Sichuan e l’apertura delle Olimpiadi (avvenuta l’8 agosto alle 8, 8 minuti e 8 secondi dell’ora legale), ricordando che piegare il destino resta comunque un azzardo dato che, “ecco, in sostanza, come nacque la politica del figlio unico: un obiettivo economico, del tutto arbitrario, che ha cambiato il corso di milioni di vite umane”. Con trecentomila ufficiali addetti al programma e sottoposti a loro volta a rigidi controlli burocratici, le forzature (eufemismo) tra aborti, adozioni, contraccezioni non furono l’eccezione e la logica draconiana “meno quantità, più qualità” ha portato ad aberrazioni che hanno convinto Mei Fong a ripetere spesso che “gli animali sono meglio degli esseri umani”. Un luogo comune che qui ha un suo senso perché le legittime, spontanee e naturali inclinazioni degli individui vennero sorpassate e annullate dagli scopi supremi individuati dalla “commissione di stato per la pianificazione familiare”. La definizione parla da sé: le strutture orwelliane destinate a imporre il Figlio unico, sorvolando sulla sottile, impercettibile differenza tra persuasione e coercizione, hanno mantenuto fede agli obiettivi, ma non hanno potuto prevedere gli effetti collaterali, primo fra tutti l’invecchiamento della popolazione. In questo c’è una straordinaria, per quanto paradossale, coincidenza con l’Italia dove il Figlio unico (per la precisione: era 1,64 nel 1980 ed è arrivato in caduta libera all’1,37 del 2015 ) è stato una costante statistica parallela a quella cinese, ma per motivi mai approfonditi e comunque del tutto avulsi dalle logiche istituzionali. In Cina, Mei Fong non tenta di definire l’impatto di una prova così complessa in una nazione multietnica, già complicata dalla storia e dalla geografia e infine sottoposta al doppio regime, quello del partito e quello del mercato. L’analisi tende piuttosto a evidenziare gli sviluppi e i contrasti e Mei Fong è elastica quel tanto che basta da avere una visione concentrata sui provvedimenti e sulle leggi e nello stesso tempo da affrontare lo sviluppo generale verso la condizione femminile, quindi il matrimonio e i rapporti affettivi, in definitiva la natura stessa dei legami e della sessualità. Figlio unico non è soltanto la rappresentazione più efficace del passato e presente di un esperimento estremo: Mei Fong non si limita agli aspetti statistici, sociali ed economici ma affronta con scrupolo la ricognizione sulla sostenibilità di scelte e/o imposizioni nella sfera più intima delle persone. L’aspetto umano, dalle sofferenze delle donne al destino dei figli unici (valga su tutti la storia di Liu Ting) fino ai rapporti tra le generazioni, viene messo in risalto attraverso una ricostruzione diretta, sul campo, e insieme a una moltitudine di fonti accertate. Frutto di un lavoro denso e caparbio, Figlio unico permette a Mei Fong di giungere alla conclusione che “alla fine, il grande danno inferto dalla politica del figlio unico è aver costretto le persone a pensare razionalmente, forse troppo razionalmente, alla possibilità di diventare genitori, che invece è un grande salto nel buio, capace di estendere all’infinito la nostra comprensione di ciò che significa vivere e amare”. Per la cronaca, la politica del Figlio unico è stata abolita nel 2013, senza rimpianti e con molti, molti dubbi sui suoi effetti a lungo termine. In un anno privo di 8, non poteva che andare così.
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