A distanza di anni, il diario di viaggio, gli appunti sul deserto, su Los Angeles, sulla California di Jean Baudrillard restano densi e affascinanti. Anche la lettura della società “liquida” molto tempo prima di Zygmunt Bauman, ha qualcosa di innovativo se non di profetico, quando dice che “l’America realizza tutto, e lo fa in modo empirico e selvaggio. Noi non facciamo che sognare e ogni tanto passiamo all’azione, l’America invece trae le conseguenze logiche, pragmatiche, di tutto ciò che è possibile concepire” e nella sua opulenza “è il solo paese in cui la quantità può essere esaltata senza rimorsi”. Sono solo le premesse per sostenere che l’America “è la versione originale della modernità, noi ne siamo la versione doppiata o sottotitolata”. C’è l’Europa dietro la prima persona plurale e questa distinzione viene ribadita e ampliata da Jean Baudrillard in più occasioni: “l’America non è né un sogno né una realtà, è una iperrealtà”, altrimenti da considerarsi come “un gigantesco ologramma”. Fin qui si capisce ed è chiarissimo perché nell’America di Baudrillard “ogni cosa viene ripresa dalla simulazione. I paesaggi dalla fotografia, le donne dallo schema sessuale, i pensieri dalla scrittura, il terrorismo dalla moda e dai media, gli eventi dalla televisione. Le cose sembrano esistere solo attraverso questa distinzione anomala. Ci si può domandare se il mondo stesso non esista se non in funzione della pubblicità che può esserne fatta in un altro mondo”. Quando Baudrillard si dedica a “filosofeggiare” (la definizione è sua) risulta invece farraginoso, come se stesse cercando di decifrare un puzzle assemblato con i mille frutti dell’osservazione, lasciando emergere la fretta del movimento, la natura sfuggente dell’America (qui sinonimo degli Stati Uniti) perdendo il contatto con un’entità esuberante ed evanescente. Un tentativo di elaborazione che tende all’eccesso, confondendo il pensiero con la comprensione, i segnali con le direzioni. Non di meno, la sua percezione è ricca e frastagliata e sapendo fin troppo bene che “la storia è piena di trucchetti” e Jean Baudrillard sceglie quindi di far collimare molte idee di America: “Ho cercato l’America siderale, quella della libertà vana e assoluta delle freeways, mai quella del sociale e della cultura, quella della velocità desertica, dei motel e delle superfici minerali, mai l’America profonda dei costumi e delle mentalità. Ho cercato nello scorrere veloce dello scenario, nel riflesso indifferente della televisione, nei film dei giorni e delle notti attraverso uno spazio vuoto, nella successione meravigliosamente priva di ogni emozione dei segni, delle immagini, dei volti, degli atti rituali della strada, ciò che è più vicino a quell’universo nucleare ed enucleato che è virtualmente il nostro persino nelle capanne europee”. Eccola, la singolarità dell’America, alla fine, ovvero “il carattere lirico della circolazione pura” che si condensa nel deserto: è spazio puro senza esserlo, è una dimensione americana prima degli americani, è un punto di domanda, muto e inevitabile laddove, come scriveva Robert Adams, “la bellezza primordiale ci turba per la sua assenza di caratteristiche”. Deve aver fatto lo stesso, identico effetto su Baudrillard quando si è accorto che “il silenzio del deserto è anche visivo. È fatto dell’estensione dello sguardo che non trova niente su cui riflettersi”. È un traguardo che, per la forma, per la sua stessa essenza, permette a Jean Baudrillard di fermarsi e concludere che “l’America corrisponde a una forma latente di esilio, a un fantasma di emigrazione e di esilio, e dunque a una forma di interiorizzazione della sua cultura”. L’ipotesi resta concreta e, a ben guardare, oggi ancora più attuale di allora.
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