Le Conversazioni sul buon giornalismo sono concluse da un serrato dialogo tra Ryszard Kapuściński e John Berger che lo introduce con un ritratto in cui dice che “è un viaggiatore geniale e probabilmente conosce il mondo più di chiunque altro. Attraverso i suoi scritti, egli di dà la possibilità di seguirlo nei suoi viaggi e nelle sue osservazioni. Di tanto in tanto, mentre scrive, si ferma, alza lo sguardo al cielo e dice qualcosa di più generale”. Questo succede spesso nel corso degli incontri pubblici poi trascritti in Il cinico non è adatto a questo mestiere perché ispirato da “Mark Twain, Ernest Hemingway, Gabriel García Márquez” e da tutti gli scrittori che “stanno lottando per qualcosa. Raccontano per raggiungere, per ottenere qualcosa”, Ryszard Kapuściński è stato capace di leggere attraverso l’ottica di ogni paese in subbuglio, tutti i limiti di un’intera umanità. Come scriveva in Shah-In-Shah, “le rivoluzioni sono un dramma, e l’uomo tende istintivamente a evitare situazioni drammatiche; tant’è vero che, anche quando vi si trova dentro, cerca a tutti i costi una via d'uscita pur di ristabilire la pace e, soprattutto, la quotidianità. Ecco perché le rivoluzioni non durano molto a lungo. La rivoluzione è l'ultima risorsa: se un popolo decide di ricorrervi, accade solo perché si è convinto, per lunga esperienza, che si tratta dell’unica via d’uscita. I tentativi precedenti di cambiare le cose sono finiti tutti in sconfitte, le altre procedure hanno tutte fallito”. Essendo stato un testimone oculare di gran parte del ventesimo secolo e avendo colto quello che John Berger chiama “il senso del destino” per interi continenti (l’Africa, prima di tutto, a cui è dedicata un’ampia disamina), Kapuściński ribadisce che è “impossibile vivere nel mondo contemporaneo senza cambiare e senza adattarsi ai cambiamenti. Perché la nostra materia è in costante mutamento. E noi stiamo tentando di descrivere il mondo contemporaneo con gli strumenti che andavano bene quaranta anni fa, e che oggi sono completamente obsoleti, fuori fuoco”. I limiti dei mezzi a disposizione li ha sperimentati di persona, dovendo riportare gli avvenimenti di nazioni in crisi o città attraversate dalla guerra potendo contare soltanto su pochi spiccioli e sull’accesso a un telex. Difficoltà (e non pochi rischi) che è possibile superare soltanto con la convinzione che “c’è poi un livello più alto, che è quello creativo: è quello in cui, nel lavoro, mettiamo un po’ della nostra individualità e delle nostre ambizioni. E ciò richiede davvero tutta la nostra anima, il nostro attaccamento, il nostro tempo”. È quel trasporto nel raccontare le notizie che fa di Kapuściński un reporter speciale, avvicinato da John Berger piuttosto all’idea di “un narratore”, comunque capace di delineare con grande precisione gli eventi storici, dal crollo dell’Unione Sovietica ai conflitti sudamericani. Osservazione, conoscenza, attenzione ai dettagli della vita quotidiana sono gli elementi distintivi del lavoro di Kapuściński che comunque alla fine ha l’umiltà di riconoscere che “è sempre stata l’arte a indicare con grande anticipo e chiarezza la direzione che via via stava prendendo il mondo e le grandi trasformazioni che si preparavano. Serve di più entrare in un museo che parlare con cento politici di professione”. Su questo, non c’è alcun dubbio.
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