Con uno sguardo rivolto ancora ai Balcani, Hans Magnus Enzensberger tende un filo rosso in un labirinto popolato di spettri, mettendo subito in gioco l’idea che, ormai da tempo, sia in corso il genere umano nel suo complesso abbia avviato la demolizione dello spirito di “autoconservazione”. L’esplodere palese dei conflitti è soltanto l’effetto: stando a Enzensberger, “in realtà la guerra civile ha già fatto da tempo il suo ingresso nelle metropoli. Le sue metastasi sono parte integrante della vita quotidiana delle grandi città, e questo non solo a Lima o a Johannesburg, Bombay e Rio, ma anche a Parigi e Berlino, Detroit e Birmingham, Milano e Amburgo. I suoi protagonisti non sono soltanto terroristi e agenti segreti, mafiosi e skinhead, trafficanti di droga e squadroni della morte, neonazisti e vigilantes, ma anche cittadini insospettabili che all’improvviso si trasformano in hooligan, incendiari, pazzi omicidi, serial-killer. E questi mutanti, come nelle guerre africane, sono sempre più giovani. La nostra è una pura illusione se crediamo davvero che regni la pace soltanto perché possiamo ancora scendere a comprarci il pane senza cadere sotto il fuoco dei cecchini”. Per individuare le cause di questa devastante involuzione, Enzensberger tende ad acuire le sue osservazioni, non di rado trasformandole in iperboli provocatorie. Quando prova a comprendere i motivi della diffusione di quella logica primitiva di tutti contro tutti, sostiene che “ogni vagone della metropolitana può diventare una specie di Bosnia in miniatura. Per il pogrom non sono più necessari gli ebrei, né i controrivoluzionari per la pulizia etnica. È sufficiente che l’altro preferisca una squadra di calcio diversa, che il suo negozio di verdure vada meglio di quello accanto, o si vesta in modo diverso, parli un’altra lingua, sia seduto su una sedia a rotelle, oppure che lei porti il chador. Qualsiasi tipo di differenza di trasforma in un rischio mortale”. L’asserzione, a saldo degli eccessi, è utile a ricordare che “il desiderio di riconoscimento è un dato di fatto antropologico di fondamentale importanza” e insinua il sospetto che “la violenza collettiva, così si potrebbe concludere, non è altro che la disperata reazione dei perdenti di fronte a una situazione economica senza vie d’uscita”. È la guerra civile “molecolare”, come la identifica Hans Magnus Enzensberger: non lontana dalle visioni ballardiane, permette di vedere con maggiore attenzione alla diffusione endemica di “una furia distruttrice solo a malapena canalizzata in forme socialmente tollerate quali guida spericolata, ingordigia, fanatismo nel lavoro, alcolismo, avidità, mania di citare in giudizio, razzismo e violenza in famiglia”. Le Prospettive della guerra civile conducono alla considerazione che la deflagrazione sia soltanto l’ultimo capitolo, il più appariscente, distruttivo e lancinante, e che sia frutto di una progressione più subdola o, come dice Enzensberger, che “comincia in modo impercettibile, senza mobilitazione generale. L’immondizia cresce lentamente sul ciglio della strada. Nel parco si accumulano siringhe e bottiglie di birra in frantumi”. Particolarmente interessante e pungente il passaggio in cui spiega il meccanismo perverso che ci trasforma in osservatori privilegiati (“È fuori dubbio ormai che siamo diventati tutti spettatori”), una specie di abbaglio che fa leva sulla nostra impotenza per generare un corto circuito morale: “Chi dal terrore delle immagini non viene trasformato in terrorista, diventa voyeur. Ciascuno di noi, in questo modo, si vede sottoposto a un ricatto immanente. Perché solo chi è resto testimone oculare può sentirsi chiedere, con tono carico di biasimo, che cosa intende fare contro quello che gli viene mostrato”. È un’opinione che Ryszard Kapuściński definiva “paradossale”, ma nelle Prospettive sulla guerra civile serve a distinguere il caos dalle sue origini, gli alibi dalle responsabilità, l’apatia dall’innocenza.
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