Quanto mai sia necessario leggere, rileggere e comprendere Thoreau è il nocciolo del saggio di Michel Onfray che, usando un canovaccio biografico, per quanto molto elastico, squaderna il pensiero di Thoreau in tutte le sue declinazioni, mostrando chiaramente il filo rosso che lo distingue dagli altri ipotetici “grandi” uomini. Thoreau vale sicuramente uno degli Uomini rappresentativi di Emerson e l’analisi di Michel Onfray è lineare, partecipata e rispettosa, ma anche volutamente limitata, perché concentra le note rilevanti con brevi cenni, cogliendone lo spirito più del senso o dei significati derivanti dall’interpretazione. L’idea di “vita filosofica” intesa come atto politico, comincia dall’infanzia perché “il bambino fornisce la trama all’adulto” e quindi nel legame con la wilderness. “La natura è trascendentale” diceva Emerson e nella Varietà degli scopi dell’uomo, come recita il titolo di una sua opera giovanile, Thoreau individua la meditazione e lo stretto legame rapporto con l’ambiente come capisaldi irrinunciabili e “l’immaginazione come elemento di felicità”. L’epicentro resta Walden che, nella collocazione di Onfray, “contiene un’utopia politica” e se c’è un’immagine simbolica, più delle altre, sono le tre sedie, che Thoreau teneva nella sua capanna: una per sé, due per gli ospiti, proporzioni ridotte, ma giuste. Onfray ricorda inoltre che Walden ha precursori e ascendenti in Socrate, Diogene, Epicuro, Seneca e identifica Thoreau come “il pensatore del fiume che scorre, il pensatore per il quale l’unica permanenza è l’impermanenza. Un pensatore vissuto immobile sul fiume”. A questo punto è necessario sentirlo in prima persona ripescando proprio da Walden quella che suona decisamente come un’apologia della vita nei boschi: “Se avete costruito castelli per aria, il vostro lavoro non deve andare perduto; è quello il luogo dove devono essere. Ora il vostro compito è di costruire a questi castelli le fondamenta”. Onfray opera anche una sintesi (riduttiva, ma sufficiente) delle “formule” di Thoreau, puntualizzando a più riprese l’idea del “contro-attrito”, destinata a bilanciare le ingerenze delle istituzioni, e riassumendo con efficacia come per lui l’artista non fosse “il pittore o lo scrittore, il poeta o il romanziere, l’autore teatrale o il compositore, ma chiunque, partendo da condizioni pur modestissime, cerchi di trasformare la propria vita in un’opera d’arte”. Una definizione appropriata a cui si accoda lo stesso Onfray: “Thoreau è un filosofo raro, uno di quelli che conducono vite filosofiche. Ha contemporaneamente pensato la propria vita e vissuto il proprio pensiero. Il bambino di una volta è diventato padre dell’uomo che è stato”. Pur sottolineandone le contraddizioni, in particolare in riferimento al saggio In difesa di John Brown, dove Thoreau parve abbandonare le pratiche non violente, Michel Onfray sottolinea che “la sua rivoluzione politica è dunque ecologica, individualista, spirituale, filosofica, ribelle e pacifica” e che “l’unica che valga davvero qualcosa e non faccia scorrere il sangue: l’unica che permette, cambiando sé stessi e invitando gli altri a cambiare, di mutare l’ordine del mondo”. Ritornando alla definizione iniziale delle illuminate personalità, aggiunge che “in questi nostri tempi democratici, il grand’uomo è colui che segue da solo la propria strada”, ma anche in questo Thoreau si distingue e “non invita a imitare lui, ma mostra semplicemente come si possa fare. Sta poi a ognuno inventarsi il proprio cammino, trovarsi la propria strada”. A saldo di ogni possibile analisi, la direzione resta quella tracciata dallo stesso Thoreau in un passo dei suoi Diari: “A me non importa se la mia visione della verità è un pensiero vigile o un sogno ricordato, se è alla luce o al buio. È il soggetto della visione, è soltanto la verità, che mi interessa”. Impeccabile.
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