Secondo un arcaico conteggio, riportato dall’autorevole Harold Bloom in Visioni profetiche, sarebbero 133.306.668 gli angeli caduti. L’origine della statistica resta oscura, ma viene spontaneo conteggiare in quel censimento anche i demoni di Vladimir Orlov. Sono creature davvero bizzarre che si occupano “di cataclismi, di sentimenti”, si trasformano in tori e si sfidano a duello a colpi di missili, si abbandonano a pantagrueliche abbuffate di pesce, vodka e birra, si annoiano osservando il tempo scorrere “nella brocca di terracotta” e mutano in forme impalpabili capaci evaporare contro i muri, di infiltrarsi nell’universo remoto come nelle particelle più elementari, ma nonostante siano onniscienti, restano impacciati, caotici e, in definitiva, molto umani. Fin troppo. Tra loro, Danilov, che in effetti è un ibrido scaturito da una relazione inammissibile, è il più tormentato. Si trova in esilio a Mosca dal 1943 (per quanto anni e calendari siano del tutto relativi) dove ha assunto le sembianze di un genialoide e squattrinato musicista. Un ruolo scelto con oculato criterio: da Paganini a Robert Johnson un patto mefistofelico pare ineluttabile, ma anche perché “la musica come ogni altra arte, così come ogni altra scienza riflette il livello di evoluzione dell’umanità, la percezione che hanno gli uomini del mondo e di se stessi. Queste percezioni, certo, si modificano, ma ora sono ingenue e infantili. Gli uomini non sanno nulla di sé e del mondo! Per renderli più facile la vita, si sono muniti di qualche convenzione”. Ha suonato in balletti con titoli come Cronaca di un bombardiere in picchiata, deve districarsi nelle partiture di un ardito compositore, Pereslegin, in previsione di un concerto, ma si trova ad affrontare una moltitudine di incombenze. Circondato da suoi simili che possono scatenare calamità infernali, ma hanno bisogno il permesso per le ferie (firmato e timbrato), da gatti che parlano e “macchine che scrivono musica”, Danilov si innamora di Nataša (“Era per sempre e in ogni dove: negli spartiti, nei voli della bacchetta del direttore d’orchestra, sul palcoscenico, non solo nei movimenti di Giselle o della fremente Odette, ma nel fruscio del sipario, nel suono dei fiori che cadevano, anche se gettati dalla claque dell’artista Volodin, e a casa di Danilov, nelle sue fantasticherie mentre si cuoceva una frittata, e per le strade, tra la folla che si affrettava, presa dalla morsa del gelo. Persino nel golfo mistico, si voltava di continuo per vedere se per caso fosse arrivato”) e, per non farsi mancare niente, è perseguitato dalla ex moglie, Klavdija, che lo chiama tutte le mattine. Ed è solo l’inizio della sua ordalia terrestre: prima gli rubano la preziosissima viola Albani, poi viene convocato a giudizio dal simposio demoniaco. Convinto che “il mondo è una qualsiasi diavoleria, ma non è armonia”, Danilov è una contraddizione vagante e attorno a lui Vladimir Orlov crea una galassia irriverente e psichedelica, inafferrabile come la musica, ipnotica come una favola tradizionale. Solletica più le emozioni dell’intelletto, ma insieme alle perplessità degli spiriti afflitti (“A che serviremmo noi con i nostri sforzi e le nostre tentazioni! E chi siamo noi? Noi siamo tutti questi esseri e sistemi inanimati che viviamo nel nostro mondo? O siamo noi a vivere da loro? Noi consolidiamo qualcosa oppure gli nuociamo? È necessaria la nostra presenza nel mondo e in cosa consiste questa necessità?”), progredisce una metamorfosi singolare ed enigmatica. Lo stesso Danilov insinua il sospetto che sia tutta una messinscena perché “il toro, Klavdija, i faccendieri futuri, la viola Albani, il compositore Pereslegin e gli sforzi personali nella musica, ora tutto gli sembrava di scarso interesse. Quanto alla carta laccata con i caratteri color porpora dell’ora X, non erano altro che un sogno”. La cornice teatrale, multiforme, eccessiva ed effervescente è inevitabile, ma più ci si inoltra nei gironi danteschi al seguito di Danilov e più diventa evidente l’ambito comune e condiviso che poi sono “i pensieri, in particolare nell’uso che ne fanno gli umani, più spesso si palesano grazie all’espressione verbale. Ma la parola, ingabbiata dalla abitudini della lingua, è primitiva e misera, trasmette solo una parte del pensiero, a volte non quella più importante, lasciano da parte il movimento stesso del pensiero, la sua vita, i suoi fremiti”. È lì che si dibattono i demoni di Vladimir Orlov e sono “cattivi compagni”, non tanto nella versione della burocrazia sovietica quanto in quella di sant’Agostino, che a sua volta riprendeva da san Paolo, l’identificazione di “quello spirito che ora opera negli uomini ribelli”. Una definizione che vale anche per le imperfette progenie di Vladimir Orlov che, nemmeno con tutti i poteri immaginabili, riescono a concretizzare un qualche obiettivo e si ritrovano a confessare che “talvolta, in una qualche civiltà o per impazienza o per qualsiasi altra ragione, organizzi una bella scossa, una cosa tremenda, con inondazioni ed eruzioni, epidemie mortifere, esplosioni di sostanze mortali, spargimenti di sangue, incendi di capitali, odi fratricidi, sofferenza del pensiero, ma lasci loro la vita, vedrai che più tardi, non subito, pian piano, tutto si metterà a rifiorire in modo poderoso e rigoglioso, come l’erba sull’humus”. Imprevedibile e fantastico (in tutti i sensi), ma puntuale del tracciare i destini di dei, demoni e uomini, che non sono mai così distanti.
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