Il motivo ufficiale delle rivolte che incendiano Rio de Janeiro, a partire dalle sue favelas, è antico come l’uomo, come il mondo: la lotta per la sopravvivenza che, in un Brasile attanagliato dalle proprie contraddizioni, si tramuta in una guerra tra ricchi e poveri. Lo schema, che presuppone anche una rigorosa divisione morale, viene scardinato da José Eduardo Agualusa in Quando Zumbi prese Rio perché lascia i suoi inequivocabili personaggi liberi di attraversare le linee che dovrebbero separare e, invece, sembrano soltanto differenti percorsi di una nazione in cerca di un'identità. Non è semplice perché al crogiolo di etnie e di razze (come ha detto lo stesso autore: “Il luogo di nascita è sempre casuale. La nostra nazionalità riguarda il nostro percorso, si costruisce attraverso il nostro cammino. È la nostra lingua che ci permette di far parte di uno spazio molto più vasto. Mi rifiuto di appartenere ad un unico spazio”) e alle fratture tra le classi sociali che, insieme, compongono la miscela che accende anche la scrittura di Josè Eduardo Agualusa, si sovrappongono rivendicazioni politiche e umanissime, ma anche le ambiguità di chi per finanziare le rivolte, per comprare le armi alla rivoluzione, si dedica al narcotraffico o si allea con vecchi mercenari. Linee d’ombra che vengono attraversate spesso, e in più direzioni. I destini delle persone sono vincolati agli stessi luoghi, come se non ci fosse una via di fuga, come se i conflitti non fossero un deterrente sufficiente per schivare il pericolo, la violenza, la distruzione. Un legame indissolubile che le rivolte alimentano e condizionano all’infinito perché, come dicono i personaggi di Quando Zumbi prese Rio, “torniamo sempre ai vecchi posti dove abbiamo amato la vita. E solo allora capiamo che non torneranno mai le cose che ci sono state care. L’amore è semplice, e il tempo divora le cose semplici”. L’ammissione è un po’ il fulcro del romanzo, dove Josè Eduardo Agualusa sa rendere perfettamente le atmosfere in cui maturano le rivolte delle favelas di Rio grazie ai suoi picareschi personaggi (che ogni lettore gradirà scoprire da sé), a una visione d’insieme cinematografica, ma anche alla capacità di rendere intellegibili gli intrighi, i doppi giochi, le ambizioni e i sotterfugi che nel suo ipotetico Brasile sono una malattia tropicale così diffusa e incurabile da essere comune a tutti. Come dice uno di loro: “Io vorrei essere semplice come le rane negli stagni”, ma, sembra di capire, nel Brasile di José Eduardo Agualusa, così come in quello reale, è solo un sogno innocente. La verità è molto più crudele e la Rio che si prende Zumbi è, come avrebbe detto Joseph Conrad, “una visione di un’enorme città. Una mostruosa città più popolosa di alcuni continenti che nella sua potenza di mano dell'uomo era quasi indifferente ai corrucci e ai sorrisi del cielo. Così grande che c’era abbastanza spazio per ogni passione, varietà per ogni scenario, e buio per seppellirvi milioni di vite”.
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