La sequenza elencata in copertina è tale che l’idea di una maledizione o di un destino già scritto è così forte da aver generato uno dei tanti luoghi comuni su cui si reggono miti e leggende del rock’n’roll. Al Club 27 sono iscritte d’ufficio quelle personalità, irruenti e geniali, che sono arrivate troppo presto alla fine dei loro giorni (compiuti i 27 anni) e, come scrive Chris Salewicz, sono rimaste “giovani per sempre”. I nomi evocano già un’infinita aneddotica e le connessioni del Club 27 vengono riportate alla luce da Chris Salewicz con un metodo molto semplice, raccontando le singole storie che, per quanto note, vengono accostate in un confronto senza aggiunte particolari, come se fossero in grado di evidenziare da sole i motivi per cui possono restare nella medesima cornice. La discriminante dell’età potrebbe non essere l’unica. Notando la frequenza delle J viene da pensare ad altre coincidenze a cui Chris Salewicz dedica il giusto (poco) tempo. È più attento a far notare quanto abbiano pesato le disfunzioni famigliari, la promiscuità, l’abuso di sostanze stupefacenti e, più di tutto, la pressione costante di un’industria cinica e ingorda che prospera sul culto della personalità, viva o morta che sia. Le singole vicende sono toccate con umanità perché affiorano (con la giusta compensazione di una certa dose di compassione) la solitudine, l’incoscienza, la disperazione che avvolge il talento geniale, la vocazione a senso unico, forse una fiducia estrema e incondizionata nell’inspirazione e nei propri mezzi. Ma spesso l’arte è un appiglio fragile nelle onde spietate di un naufragio conclamato e non è sufficiente, o almeno così si evince dall’impietosa analisi di Chris Salewicz. Ci sono misure diverse: Jim Morrison diventato il nemico pubblico numero uno, Robert Johnson inseguito dalle sue ombre e dalle sue leggende, Amy Winehouse travolta da un vortice di follia, Janis Joplin distrutta dal Southern Comfort, Kurt Cobain incastrato in un mondo troppo grande e troppo triste per lui, Jimi Hendrix in viaggio verso un altro universo. Non è il solo: ognuno di loro era in cerca di qualcosa che, sulla terra, non riusciva a trovare, ed erano tutti dolorosamente fragili. John Lennon (giusto a proposito di J e finali tragici) diceva di Brian Jones: “Soffriva davvero tanto. Però ai primi tempi era uno a posto, era giovane e bello. Purtroppo era una di quelle persone che si disintegrano davanti agli occhi”, e questo vale probabilmente per tutti gli aderenti al Club 27. D’altra parte l’ineffabile Mick Jagger lo vedeva come “un giovane estremamente spaventato” e certo il milieu dei Rolling Stones nella Swinging London non era il più salubre degli ambienti per chiunque, figurarsi per una persona un po’ disturbata. Del resto le dinamiche interne di una rock’n’roll band, spesso incomprensibili, non sono la cura migliore per certi disturbi e in questo i Nirvana o gli Stones o l’Experience non differiscono tra loro e sono amplificate dalle soprattutto le pressioni del mercato (basta pensare a Jim Morrison e ai Doors che hanno fatto di tutto e di più in pochissimi anni). Sono le circostanze incendiarie in cui ogni “enfant terrible” ha dovuto lottare per e contro la propria unicità, che Chris Salewicz identifica, più di tutti, con Jimi Hendrix che “era diverso da tutti gli altri, un rumore sontuoso che sfidava ogni concetto di musica elettrificata”. Diventa chiaro come il rock’n’roll fantascientifico di Jimi Hendrix fosse una via di fuga da un coacervo di condizioni invivibili e l’interrogativo di Mikal Gilmore a proposito di Jim Morrison vale per tutti i soci del Club 27: “La vera domanda non è tanto se possiamo trovare un qualche valore nell’arte di Jim Morrison nonostante la sua vita sprecata. Invece è: possiamo separare le due cose? E se non possiamo, che cosa possiamo ricavarne?”, e la risposta resta là, nel vento, dove nemmeno una conversazioni tra fantasmi riesce ad acciuffarla.
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