Gli scenari all’alba del 1991 come cornice sono cambiati in modo radicale. La dissoluzione dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia portano John Le Carré a identificare nuovi nemici che si annidano nel groviglio di politici, avventurieri e, più di tutti, trafficanti d’armi. Richard Roper li riassume tutti in un solo personaggio, “l’uomo peggiore del mondo”, che ha solide intersezioni con il potere costituito a Londra. È ricchissimo, sfuggente, abile e crudele. Il direttore di notte ovvero Jonathan Pine l’ha incontrato già una volta, al Cairo, quando si era innamorato di Sophie, assassinata dagli amici e colleghi in affari di Roper. Il suo fantasma aleggia in continuazione ed è uno dei motivi, se non l’unico, che porta Jonathan Pine ad accettare un ruolo di primo piano nell’affaire Limpet, una complessa operazione ordita dalle agenzie su entrambe le sponde dell’Atlantico. I particolari che si snodano all’interno del romanzo mostrano che John Le Carré sa districarsi nell’intricato labirinto dei servizi segreti e riesce a renderlo affascinante. Lo stile è avvolgente, con i dialoghi che intrecciano trame su trame, e i dettagli sembrano infilati a sua discrezione, così numerosi e ridondanti, ma leggendoli bene paiono distribuiti secondo uno schema matematico, un raffinato intarsio che sovrintende al caos degli eventi con “un certa drammaticità, un senso più intenso della situazione”. L’operazione Limpet è così vista da due prospettive diverse, quella di Jonathan Pine e delle sue camaleontiche personalità e quella che ruota attorno agli “spiocrati” tra la Londra e gli States che, seguendo una fitta ragnatela di imperscrutabili ragioni portano a sua volta Jonathan Pine a considerare le manipolazioni della personalità come un’opportunità “perché stava cominciando a capire che nel teatro dov’era entrato un attore poteva interpretare molte parti in un’unica giornata di lavoro”. Infiltratosi, non senza danni, nell’entourage di Roper, che occupa un’intera isola nei Caraibi, Jonathan Pine aggiunge, un’altra volta, motivi del tutto personali alla sua missione: al fantasma di Sophie, si sovrappone il fascino di Jemina alias Jeds (anche i nomi sono doppi), la tormentata fidanzata del capo, a cui non sa proprio resistere. Le pagine rimbalzano e si specchiano tra le contorte manovre nei corridoi governativi londinesi e le lussureggianti residenze di Roper, tra guardie del corpo e intermediari, corrotti e corruttori, manovre e sotterfugi. Sapendo che “il tempo è attenzione. Il tempo è innocenza”, John Le Carré non si preoccupa più del tanto di condividere le coerenze formali, per quanto lo stile sia preciso e puntuale. Piuttosto, pare più attento all’urgenza della storia in sé, al suo sviluppo, alle contorsioni dei personaggi (e vale la pena, tra gli altri, di riconoscere almeno il maggiore Corkoran, il luogotenente di Roper), e a ricordare, come dice Roper che tutto “questo non è un crimine. È politica. Non ha senso sentirsi superiori. Il mondo va così”. Non fa una piega: era la verità durante la guerra fredda, così come trent’anni fa: gli eventi bellici del Golfo, che all’epoca inaugurava il crepuscolo del ventesimo secolo, spalancava le porte a una folle proliferazione di armi, e se proprio bisogna aggiungere qualcosa che non è mai cambiato in tutto questo tempo è, come dice lo stesso Le Carré, introducendo Il direttore di notte, che “nessuno parla delle vittime”, ed è vero anche quello.
Nessun commento:
Posta un commento