Essendo nato nei Paesi Baschi, Bernardo Atxaga ha sperimentato il concetto di confine ben oltre la sua dimensione geografica. È una forma mentale che evidentemente trova una disposizione ideale Dall’altra parte della frontiera, e non solo per la logica territoriale, che comunque è molto sfumata. Diceva infatti nella prefazione a Obabakoak: “Scrivo in una lingua strana. Le sue forme verbali, la struttura delle sue proposizioni relative, le voci con le quali designa le cose antiche, i fiumi, le piante, gli uccelli, non hanno sorelle in nessun luogo della terra”. Si capisce perché quella di Bernardo Atxaga è una scrittura immaginifica che si moltiplica in rappresentazioni e divagazioni eccentriche a partire da piccoli ritratti, quasi impressionistici, per alzare lo sguardo in direzioni più ampie, come se seguisse solo l’istinto per le parole, per il loro assembramento, noncurante degli idiomi e delle forme. Bisognerebbe cominciare dal Poema Polaroid sulla morte di John Lennon, una lunga orazione che occupa la parte centrale di Dall’altra parte della frontiera, e che riporta a quel giorno maledetto. Nella ricostruzione di “quando John Lennon muore per un autografo”, Bernardo Atxaga alterna più di un registro e la colloca idealmente a conclusione di una Cronaca parziale degli anni settanta perché “poi arrivarono vagoni pieni di silenzio”, e basta un verso per raccontare quello che anni di analisi storiche non sono riusciti a decifrare. Lo scenario che Atxaga trova Dall’altra parte della frontiera, è quello che emerge con La città: “E un po’ più in là, le luci della stazione, gli ubriachi, il giallo fosforescente degli spazzini, un altro ponte, le prostitute, tutto questo finisce. Vicino al parco, i tassisti parlano del pugile morto, che è morto come muoiono la ribeca e i cantanti di strada. Il tempo è un broccato fragile, fatto di tramonti sempre cupi”. La sua è una poesia fatta di osservazione, di un’attenzione acuta che sa leggere ben oltre l’immediato come Atxaga spiegava in Un traduttore a Parigi: “Se qualcuno ignora l’immensa maggioranza delle cose che formano la realtà per concentrarsi su una sola, questa diventa brillante, ma brillante come lo sono gli occhi di un serpente, con una luce che non permette di vedere nient’altro”. L’intensità è proprio quella e conferma la sensazione di movimento che viene celebrata così in Poema d’inverno: “E tu guardasti verso quel cielo, per dire: se avessi le ali, anch’io mi spingerei in cerca di terre nuove, anch’io pianterei le mie tende in una spiaggia piena di bandiere gialle; forse allora il tempo lavorerebbe meglio, forse allora dimenticherei per sempre le mura e la gente di questa città”. C’è una logica per cui il volo è ancora, e di più, lo strumento con cui Bernardo Atxaga elenca le 37 domande al mio unico contatto dall’altra parte della frontiera: “Mi hanno detto che per gli uccelli non c’è altro destino che il vento, e che ci sono navi che non raggiungono mai un porto. Quando voi parlate del destino, a cosa vi riferite esattamente? Ai vantaggi di un lavoro sicuro? Forse a ciò che si mangia cucinato all’arancia? Non pregate mai per le carovane del deserto? Sono molti, siete molti voi abitanti dall’altra parte della frontiera? Questa gente che vedo tutti i giorni per la strada, vive là?”. È una domanda più che legittima per chi è in cerca di “una patria concreta” e invece è costretto ad assoggettarsi a una terra di nessuno, quella che Atxaga delinea così in Canzoni V (Desolatio): “Dice il mio dizionario che la parola desolazione proviene dal latino desolatio, genitivo desolationis; e che fu nel milleseicentoundici che qualcuno la scrisse per la prima volta dopo aver affilato la penna di un’oca bianca. Dice anche che solitudine, rovina e distruzione sono i suoi significati principali. Ma niente dice il dizionario del cuore della gente che cammina per la strada; niente dice di noi, niente dice dei cortili del carcere o della caserma”. Eppure, forse per colmare quei vuoti o per giustificare le esigenze della poesia, Atxaga sostiene di nuovo che “abbiamo bisogno di un dizionario”, e, a ben guardare, suona inevitabile quando sappiamo di essere ormai Dall’altra parte della frontiera.
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