martedì 14 aprile 2020

Mary Shelley

Secondo la valutazione Stephen King, Frankenstein è “un dramma shakespeariano” e la definizione ha un suo senso nel riagganciarsi con Il moderno Prometeo che aveva generato Mary Shelley. Osservando un po’ meglio, in Frankenstein, il dilemma, in realtà, più che drammatico o melodrammatico, è filosofico perché mette a confronto, nella cornice delle montagne svizzere e poi fino alle distese artiche, il creatore e la sua creatura, ed è difficile distinguere le deformità delle ambizioni dal suo risultato che, alla fine, non è né umano né scientifico. Questa contrapposizione alimenta i due poli magnetici fondamentali del romanzo di Mary Shelley: la tormentata natura dell’essere partorito in laboratorio alla disperata ricerca di compagnia (e di una compagna, soprattutto) mette in risalto in Victor Frankenstein le contraddizioni legate all’ansia e all’ossessione della scoperta. Quello che Mary Shelley chiamava “il mio seminario di sordida creazione” non solo corrisponde in tutte le sue parti al tormento del patchwork di resti umani e il rapporto con il suo creatore, ma insinua la domanda: chi è il vero mostro? La sofferenza è comune ad entrambi perché così sono odio e vendetta, ma se l’esperimento di Victor Frankenstein si aggira in cerca di risposte ai bisogni primari, uomini e donne sono intrappolati in una trama insondabile perché “se i nostri impulsi si limitassero a fame, sete e desiderio, saremmo pressoché liberi; invece ogni refolo di vento, ogni parola detta a caso o la scena che quella parola evoca in noi ci tocca nel profondo”. L’inseguimento lungo un tracciato tutto europeo, da Londra all’Italia,  dalla Scozia all’Irlanda fornisce un fondale maestoso e affascinante ai contrasti tra Frankenstein e il suo essere che sono costanti, tanto da trasformarsi in una sorta di ineluttabile avvitamento che li stringe  a un solo, disperato destino. Da un punto di vista stilistico per Frankenstein è ancora validissima l’analisi  di Muriel Spark che diceva, tra l’altro: “Ciò che vorrei chiarire non è tanto la bellezza della prosa di Mary Shelley, quanto la particolarità del suo stile nel momento in cui si combinano la sua prosa utilitaristica con un argomento complesso. Nel caso di Frankenstein, questa combinazione contribuì notevolmente al suo carattere innovativo e al suo successo come romanzo. L’orrore prodotto dalla narrativa gotica si disperdeva in vapore, mentre i nitidi profili di Frankenstein intensificavano l’elemento orrorifico fino al più alto grado della nequizia”. Questa è l’essenza di Frankenstein, che ha assunto la forma di un classico perché a distanza di secoli i crudi interrogativi che pone sono ancora validi, a partire dalle questioni irrisolte tra le promesse della ricerca scientifica e tecnologica e i suoi limiti che, come abbiamo imparato, presto o tardi si manifestano, e presentano il conto. Il carattere ambivalente di Frankenstein riguarda anche la forma della storia in sé, e la fonte da cui sgorga, che si riflette nella constatazione di Mary Shelley quando scrive che “l’invenzione, bisogna ammetterlo umilmente, non consiste nel creare dal nulla, ma dal caos. L’invenzione sta tutta nell’abilità di cogliere le potenzialità di un argomento e nelle capacità di dare corpo e forma alle idee che suggerisce”. Prometeo sarebbe d’accordo, e forse anche Shakespeare.

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