Stretto tra le pareti di una stanza, consumato dal suo stesso delirio (alimentato dall’oppio), un modesto artigiano di una cittadina iraniana lotta contro le visioni, gli incubi e un’incombente oscurità. Attorno a lui aleggia un’aria cupa e malata, frutto di una distorsione che lo costringe ad aggrapparsi alla scrittura in un disperato tentativo di non perdersi nel vuoto. Il preambolo che introduce La civetta cieca è reiterato più volte: “Scrivo unicamente per la mia ombra, che si allunga sul muro seguendo la luce della lampada: è a lei che mi devo presentare”, dice il protagonista, e subito dopo ribadisce: “Sono costretto a scrivere ogni cosa per assicurarmi di non star confondendo realtà e immaginazione. Devo spiegare tutto alla mia ombra proiettata sul muro”. Passo dopo passo, la sua disintegrazione si fa palpabile e la trama del racconto di Sadeq Hedayat ricorda da vicino quei versi di Edgar Allan Poe che dicevano: “Se la speranza è sfuggita, in una notte, o in un giorno, in una visione, o nel nulla, è forse per questo meno perduta? Tutto quel che vediamo o sembriamo è un sogno in un sogno soltanto”. La dimensione onirica, carburata dalla droga, si somma e si sovrappone a un malsano flusso di coscienza in cui scorrono flebili ricordi dell’infanzia e improvvisi lampi d’ira, che si attorcigliano alla percezione della realtà che comprende l’immagine di un patibolo e del boia pronto a compiere il suo dovere. Eppure, nel lungo monologo la confessione si fa via via più definita, a partire dal momento in cui il protagonista manifesta la sua condizione: “La solitudine e l’isolamento che si erano addensati in me erano notti senza fine, pesanti e dense, come quelle notti dove l’oscurità permane fitta e vischiosa, in attesa di calare sulle città inabitate ma gravide di sogni indecenti e vendicativi”. Gran parte dei furiosi propositi sono dedicati alla moglie: La civetta cieca è la metamorfosi di un suicidio che si tramuta in omicidio, seguendo una curva dettata da una spirale particolarmente complessa che sottintende il mistero più grande, quello della mente umana. Tra gli autori preferiti di Sadeq Hedayat, Franz Kafka chiedeva in uno dei suo aforismi: “Puoi forse conoscere qualcosa che non sia illusione? Poiché se l’illusione venisse distrutta, dovresti stornare gli occhi o diventeresti una statua di sale”. La civetta cieca sembra rispondergli perché se “la vita stessa è una storia dal principio alla fine”, la sua percezione è soggetta a variabili che raramente si possono controllare, prima tra tutte la cortina di parole che ci assedia e ci toglie il respiro. Sarà per questo che in raro momento di lucidità, l’uomo prigioniero di se stesso dice: “Ho sempre pensato che il silenzio fosse superiore a ogni altra cosa, e che l’uomo dovrebbe imitare l’airone, trascorrendo le giornate librandosi ad ali spiegate sulle coste marine, o standosene accovacciato senza emettere alcun suono”. È soltanto un breve istante, poi l’ossessione lo travolge ancora, e ancora: “Mi svegliai in un nuovo mondo i cui confini, usi e costumi mi parvero assolutamente familiari. Tanto che mi trovavo più a mio agio lì che non nel mondo in cui avevo vissuto fino a ora. Pareva un riflesso della mia vita reale, un altro mondo, ma così vicino e così in sintonia con me da farmi pensare di essere nel mio elemento originale. Ero rimasto in un universo antico che mi era più congeniale e affine”. Un fragile equilibrio si spezza e un macabro ritornello comincia a filtrare lungo il declivio finale: la scrittura di Sadeq Hedayat è densa, ipnotica, a tratti impenetrabile, come se pagasse dazio all’angoscia di una dissoluzione e con il coraggio dei grandi artisti, quelli che sanno guardare attraverso uno specchio nero, senza timore di quello che scopriranno.
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