The Dark Stuff è una visione onesta, per quanto cruda, del rock’n’roll: Nick Kent affronta alla pari i suoi illustri contendenti, cosa che una volta si poteva ancora fare, e i duelli si risolvono comunque con un accordo finale: siamo così, non potrebbe essere diversamente. Ispirato da Lester Bangs, come è naturale che sia, Nick Kent affronta un’area “spesso scomoda della vita pop”, che ha frequentato in prima persona, conseguenze e disastri personali compresi. Così, come scrive uno dei suoi rock’n’roll heart preferiti, Iggy Pop, il suo è “un proprio punto di vista sordido e generalmente sgradevole, a volte decisamente esilarante”. Di sicuro Nick Kent evita la scrittura didascalica e ripetitiva che ormai attanaglia tutta la critica musicale: il suo è sempre un confronto (a volte, anche uno scontro) con la persona dentro la rock’n’roll star, con i suoi tormenti, le sue difficoltà e le sue ossessioni. L’attenzione è rivolta costantemente verso “il terribile triumvirato composto da ego, abuso di droga ed egocentrismo che assilla implacabilmente le menti creative”, spesso e volentieri prosciugandole e lasciandole senza una concreta via d’uscita. L’insistenza per i temi più intimi può apparire, non senza una ragione, piuttosto ossessiva, ma del resto Nick Kent ha il coraggio di affrontare personaggi enigmatici e inafferrabili, per poi renderli comprensibili e un po’ più umani. Quella che chiama “una serie di profili di musicisti”, comincia “con un ritratto di follia che prosegue per scenari infernali prima di trovare una qualche redenzione nei racconti finali di chi ha trascorso brevi periodi all’inferno ma è sopravvissuto, portando con sé lampi di vera saggezza da offrire al mondo”. Da questo punto di vista il capitolo dedicato al lunatico mondo dei Beach Boys, e in particolare a Brian Wilson, rappresenta la sfida maggiore. Nick Kent non risparmia niente e nessuno e affonda le sue domande, punteggia ogni mossa, creando una cronaca tagliente della famiglia Wilson e della loro California. La visione del rock’n’roll secondo Nick Kent è decisamente drastica ed è legata da nodi indissolubili alle personalità degli artisti, o meglio alle deviazioni, alle ferite, agli incubi e alle ossessioni. Nick Kent, come tutti, ha le sue predilezioni, Iggy Pop in particolare, ma il leitmotiv di The Dark Stuff è la componente dell’autodistruzione che accomuna gran parte, se non tutti i protagonisti dei capitoli assemblati nel corso dello scorcio finale del ventesimo secolo. Ci prova sempre, con risultati alterni, ma riuscendo sempre a convincere. Questo perché non ha una tesi da confermare, o un’idea in cerca di autorevoli riscontri, ma perché si affida al valore in sé dell’incontro, quando c’è un incontro (il più delle volte) o di una sua ricostruzione, quando può partire per la tangente, in assenza di contraddittorio. Il ritratto di Jerry Lee Lewis, che riconosce il debito al lavoro di Nick Tosches, mette “il killer” in una luce particolare, per poi tuffarsi in quella che Nick Kent chiama “una celebrazione, malgrado tutto, dell’essenza sferzante del rock’n’roll”. Viene portata a galla con gli snodi turbolenti dei Rolling Stones, “l’inquieto splendore delle New York Dolls”, la descrizione a distanza ravvicinata del genio e della malinconia di Shane McGowan, gli spigoli creativi di Morrissey ed Elvis Costello, l’accostamento dei capitoli dedicati a Neil Young e a Kurt Cobain, l’inseguimento delle chimere di Roky Erickson e Syd Barrett. L’aria cupa che distingue The Dark Stuff (l’elenco dei caduti supera di gran lunga quello dei sopravvissuti: Sly Stone, Miles Davis, Johnny Cash, Roy Orbison, Prince, Lou Reed, Sid Vicious, Serge Gainsbourg) non impedisce a Nick Kent di realizzare che se l’autodistruzione “non fa bene allo spirito umano, per non parlare dei polmoni, del fegato e dei reni”, il trucco di disintegrarsi e poi risplendere di nuovo può funzionare. La conclusione di The Dark Stuff sostiene che “è uno stupido sogno, ma non impedirà alle giovani menti di farsi irretire da questa strada, ancora una volta. Qual è l’alternativa? Una lunga vita e un mondo pieno di miti musoni come Belle and Sebastian”. Per carità, continuiamo a preferire Phil Spector, anche se girava negli studi di registrazione con in mano una pistola, e finirà i suoi anni in galera.
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