Scrivere di musica, anche solo per passione, è sempre un lavoro bistrattato. Un po’ perché ogni musicista contiene una rock’n’roll star e quindi si vive sempre di luce riflessa. Un po’ perché è vero il luogo comune che dietro ogni critico c'è un musicista mancato. Ciò non toglie che anche scrivere di musica sia, come giustamente ripropone questa bella antologia curata da Nick Hornby, “la testimonianza di una grande passione”. Diventa relativo che a farlo sia il songwriter Robbie Fulks (esilarante e amarissimo nello stesso tempo il suo brano sulla dichiarazione dei redditi) o un veterano dei rock’n’roll writer come Anthony DeCurtis alle prese con la leggenda vivente di Johnny Cash. È l’inseguimento della musica, il tentativo (sempre fallimentare, ma non per questo inutile) di descriverne le emozioni, le sensazioni, i piaceri e i dolori legati alle vicende personali quello che conta. Molte di queste storie (a partire da quella, splendida di Rian Malan, che racconta il travagliato percorso che ha portato una canzone di Solomon Linda, Mbube a diventare lo standard mondiale di The Lion Sleeps Tonight) sono veri e propri racconti da collocare nella migliore letteratura. Anche perché, come dice Nick Hornby “era inevitabile che la musica pop sviluppasse alla fine un senso della propria storia, anche se ci è voluto il suo tempo”, e nell’approfondirne il senso è necessario svolgere analisi che vadano un po’ oltre le categorie estetiche. Come fa giustamente Monica Kendrick che in The Complete Fun House Sessions dedica un ritratto avvincente di Iggy Pop e dice che “è questo che distingue la musica abbastanza buona dalla grande musica: la sensazione che i musicisti siano andati oltre se stessi, che si siano spinti al di là di ciò che loro stessi prima ritenevano possibile, che abbiano insegnato a se stessi qualcosa che nemmeno sapevano di sapere, qualcosa di fisico, di spirituale, di permanente”. La conclusione che vale come metro di giudizio è che “è il processo creativo che fino a oggi non si era mai potuto ascoltare, a rendere questo disco un capolavoro vitale: okay, adesso sfondiamo il muro con la testa un’altra volta. Fun House è la perfetta articolazione dell’inarticolato, di quel punto frustrante in cui i nostri desideri più impellenti si scontrano la barriera del linguaggio e barcollano, ebbri di celestiale idiozia. Sono cose che con le parole non si possono esprimere. Ma con il rock’n’roll sì”. Nell’antologia assemblata da Nick Hornby la provenienza eterogenea dei saggi mostra qualche fisiologica incongruenza: se il racconto dedicato agli ultimi giorni di Jeff Buckley a Memphis in Aurora boreale è un capolavoro intenso e crepuscolare, Jonathan Lethem se la cava con sufficienza, anche se il materiale a disposizione (i mai dimentica Go-Betweens) era molto interessante. D’altra parte meritano un cenno particolare Nick Tosches, notevole in Gagà e gangster, e Steve Erickson in Neil Young in giornata buona, ma, di sicuro, nella selezione di Nick Hornby non c’è nessun imitatore di Lester Bangs e così “non troverete tanta cattiveria in questo libro (forse uno o due pezzi, giusto per condimento), ma troverete un sacco di roba che cerca di spiegare perché la musica è importante, cosa significa, da dove derivano la musica e l’impulso a farla. In altre parole, questo libro ha la speranza di non essere affatto sulla musica, ma su ciò che ci rende umani”. Questo basta e avanza e renderlo un libro prezioso per tutti coloro che vivono dentro e attorno alla musica.
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