venerdì 1 dicembre 2017

Jenni Fagan

Entrare in Pellegrini del sole è come penetrare in un igloo ricoperto da più livelli di neve e di ghiaccio che si sono sedimentati uno sopra l’altro. La parte superficiale dell’involucro è un romanzo distopico e apocalittico che ipotizza un’incombente glaciazione. L’ipotesi accredita già Jenni Fagan in una dimensione più oculata rispetto agli strilli del riscaldamento del pianeta, perché come varie fonti scientifiche concordano, quella è soltanto la causa, gli effetti rimangono imprevedibili. Tra questi, il rischio di una nuova era glaciale, che dipenda o meno dalla sconsideratezza del genere umano, era paventata parecchi anni fa da Kary Mullis, premio Nobel per la chimica nel 1983, nel suo Ballando nudi nel campo della mente, che rimane una lettura tanto provocatoria quanto intelligente. Ammesso lo scenario, che tra l’altro ha tutte le sue valenze metaforiche in funzione dell’isolamento, della solitudine e del critico bollettino meteorologico dei rapporti umani, sotto e dentro la coltre di gelo si snoda una contorta saga famigliare costruita attorno a una serie di formidabili personaggi femminili (Gunn, Constance, Vivienne e Stella). L’epicentro su cui siedono i Pellegrini del sole, è proprio la storia di Stella. Stella è diversa, è incastrata in un albero genealogico che serpeggia da una lontana isola scozzese fino a Londra, irto di segreti e misteri. Nel villaggio di roulotte e camper dove si è rifugiata con la madre, Constance, vivono “come se tutto ciò che un tempo era in ordine fosse andato in malora, così velocemente che nessuno riusciva a reggere il passo”. Non a caso campano campano riciclando, restaurando e rivendendo mobili che trovano nella discarica. Per inciso, viene da pensare che il vero problema dell’umanità sia lo spreco, piuttosto che le variazioni climatiche. Quando nella stralunata comunità di Clachan Falls, in cima alla Scozia, arriva Dylan McRae, la sfida della mera sopravvivenza è complicata dallo sciogliersi degli equilibri. Dylan (attenzione al nome) proviene da Londra dove ha ereditato il fallimento di un cinema d’essai, il Babylon, gestito dalla madre e dalla nonna (tra i registi programmati con maggior regolarità, Werner Herzog), entrambe scomparse in rapida successione. Se il cinema è un lascito di Gunn (la nonna), da Vivienne (la madre) riceve una roulotte a Clachan Falls ed eccolo lì, tra i Pellegrini del sole. Dylan è alto, introverso, riservato e colto, tutte qualità che servono fino a un certo punto quando “il mondo è un luogo incantato fatto tutto di ghiaccio”. Con il termometro che ormai non sa più cosa indicare spostarsi diventa sempre un rischio perché l’ipotermia fa perdere l’orientamento. Restare chiusi in casa, nei caravan dove lo spazio è razionato, porta a impazzire. Rimane soltanto una drastica riduzione all’essenziale delle funzioni vitali: provare a restare al caldo dentro strati di vestiti e coperte, farsi venire i calli a furia di spaccare legna, ascoltare gli aggiornamenti nella speranza di intercettare una buona notizia che non arriva. La costruzione di Jenni Fagan è semplice e progressiva: si limita a seguire i suoi protagonisti nella faticosa lotta per la sopravvivenza, eppure nel linguaggio dissemina un sacco di strambe e colorite associazioni dylaniane (nel senso di Bob Dylan) che forniscono tono e fragranza al racconto. Pur essendo declinato al femminile, in Pellegrini del sole, l’elemento maschile è catalizzatore di tutte le svolte: alla ricerca di se stessa, Stella trova un importante interlocutore in Dylan, che a sua volta diventerà presto un amico (e qualcosa di più) anche per Constance. In qualche modo bisogna pur inventarsi un modus vivendi, ed ecco che Stella diventa Stella e Constance accetta Dylan che si ingegna a distillare gin. Sarebbe bello pensare che vissero felici e contenti, ma il passato incombe e con meno cinquanta a pochi giorni dalla primavera, il futuro è tutto da scrivere.

Nessun commento:

Posta un commento