Già nell’incipit c’è materiale a sufficienza per far impazzire un esperto di numerologia: 32 omicidi, 13 ragazzi scomparsi, un primo videotape di 28 minuti, ma soprattutto è il 1988, l’apogeo dell’era Thatcher, un riferimento da annotare, per il momento, perché per Ballard è relativo, almeno fino alla fine. O, meglio: è soltanto un effetto politico ed economico di cause più profonde, e radicate nell’alienazione suburbana. La misteriosa e violentissima strage avviene infatti nella rigorosa cornice del Pangbourne Village, un’esclusiva enclave nella campagna inglese, protetta da recinti, cani da guardia e da un reticolo di videocamere. L’ossessione di Ballard per l’architettura monotematica dei quartieri residenziali e per l’M4, l’autostrada che dalla City porta all’aeroporto di Heathrow, espande le profezie orwelliane, con La fattoria degli animali richiamata in modo implicito ed esplicito. L’eccidio, corredato da precedenti reali, Charles Manson su tutti, ha una sua particolare logica perché “i proprietari delle sue eleganti palazzine erano stati infatti spediti all’altro mondo con il minor danno possibile per le loro abitazioni, come se quei segni tangibili del loro successo professionale e della loro posizione sociale fossero i loro beni più concreti e duraturi”. Convocato sulla scena del crimine, Richard Greville, ufficialmente consulente psichiatrico della polizia metropolitana, e il sergente Payne si avvia come Dante con Virgilio in un moderno girone infernale dove è stato raggiunta una dimensione in cui “i concetti di colpa e di responsabilità non hanno più alcun significato”. La separazione meccanica, a base di cemento e filo spinato, dal resto del mondo sottintende “uno stato molto simile alla deprivazione sensoriale”, un luogo privato e riservato dove “l’emotività era considerata una debolezza, sia negli adulti sia nei giovani”. Se la ricostruzione degli omicidi si fa via via più credibile, e Un gioco da bambini sa essere davvero disturbante nella descrizione dei metodi, dei tempi e dell’azione in generale, resta da appurare il movente, ed è qui che Ballard, attraverso l’analisi di Richard Greville cerca di comprendere e delineare i confini del vuoto pneumatico in cui è maturato: “Al Pangbourne Village, pensai, il tempo poteva scorrere sia in avanti che all’indietro. I suoi abitanti avevano cancellato sia il passato che il futuro e malgrado tutte le loro attività vivevano in un ben organizzato e monotono mondo senza tempo. In un certo senso, i ragazzi avevano ricaricato gli orologi della vita reale”. Il complesso di Edipo e altre ipotesi psicologiche sono da accantonare. Tra tutti gli incubi ballardiani, Un gioco da bambini offre uno squarcio su una società dove ogni questione morale è sospesa, qualsiasi attrito è assorbito da ambizioni, speculazioni e proiezioni che, al massimo, possono tollerare la noia. Da lì in poi è soltanto un conto alla rovescia, prima dell’esplosione, che pare più inevitabile che prevedibile. Un gioco da bambini resta “un atroce paradosso”, e nel tempo, anche l’assunto principale che “in una società totalmente sana, l’unica libertà è la follia” si è capovolto, dato che l’assurdità del Pangbourne Village si è rivelata endemica, propagandosi senza incontrare alcuna resistenza.
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