Come la distanza di un riflesso è inesplicabile, così le scelte per amore sfilano come solchi sull’acqua, nitidi e invisibili nello stesso tempo. Il paradosso di Watersong, costruito con certosina pazienza e con una particolare grazia da Clarissa Goenawan, comincia proprio nel momento in cui Shoji Arai segue la fidanzata Yoko Sasaki, da Tokyo ad Akakawa. Sono quattro ore di strada, una in aereo, ma c’è tutto uno spazio nel mezzo, anche perché scopre che il lavoro di Yoko è ascoltare, ed è ben pagato. Presto Shoji, per quanto riluttante, viene coinvolto: l’ambiente è criptico, e all’inizio non trova nessuno, finché non arriva una cliente importante, anche troppo. Mizuki è infatti la moglie di un potente politico, nonché proprietario dell’azienda e riconosce al suo interlocutore l’intimo privilegio di essere ascoltata. Secondo lei “il talento è solo fatica e fiducia in se stessi” e Shoji Arai, un passione nascosta per la scrittura, un passato da nuotatore, deve soltanto ascoltare, e ascoltare è un’arte. L’unica regola è che non deve intervenire, ma le regole sono fatte per essere trasgredite, soprattutto se nascondono soprusi e violenze, dato che Mizuki gli confessa: “A volte non so se quello che sto facendo è aspettare o dimenticare. È passato così tanto tempo. Sta diventando difficile distinguere le due cose”. Vedere è un’altra cosa rispetto ad ascoltare e Shoji Arai, ormai diventato un testimone, e di conseguenza Yoko, vanno contro un potere oscuro e malefico, che concentra influenze politiche, famigliari e criminali in un conglomerato invisibile, ma onnipotente, che li costringe alla fuga. Il prezzo da pagare è nascosto in un libro di poesie di William Carlos Williams avuto in regalo, ed è lecito immaginare, tra le parole lette da Shoji, quelle di Aprile (Dalla primavera trasportata al morale): “Le forme delle emozioni sono cristalline, con sfaccettature geometriche. Così ce ne rendiamo conto solo nel calor bianco della comprensione, quando una fiamma s’insinua rapida nel varco creato dall’apprendere”. L’alone di mistero che li circonda non è dovuto soltanto alla condizione di Mizuki, ma anche (e soprattutto) alla fragilità dei legami che restano fluidi come l’acqua, per quanto mai altrettanto trasparenti. Pare evidente, nel contesto di Watersong, che l’identità non ha corrispondenze nella solitudine e si forma soltanto come un’unità compiuta all’interno di una coppia, per quanto fragile, contraddittoria e limitata l’unione possa essere. Si capisce perché, nelle raffinate geometrie di Watersong, i personaggi maschili, salvo Shoji (ovviamente), tendano a sparire in fretta e spesso non di propria volontà: il misterioso signor Sato, un’enigmatica figura in guanti bianchi, Toru Odagiri (un reporter affrettato e maldestro), lo zio Hidetoshi, il professor Takeshi Goda e lo stesso Kazuhiro Katuo compaiono come figure ambigue e defilate. Le figure femminili invece si susseguono determinando tutte le svolte di Watersong, da Yoko a Mizuki, da Lyiun a Eri, una vecchia conoscenza che consiglia a Shoji: “Se sai di aver fatto un passo falso, prova a fare qualcosa di diverso. Risolvi il problema. Non crogiolarti nel rimpianto”. Sulla carta sembrerebbe un saggio suggerimento, nella realtà lo porterà ancora a camminare nei solchi dei ricordi e a cercare Yoko, di cui dovrebbe ricordare l’ammonimento: “Be’, tutti hanno un segreto che non vogliono che nessuno scopra mai”. È troppo tardi e Shoji Arai, inseguendo un ideale di amore, ha perseverato nell’errore nel tentativo di ricostruire il passato, o di rileggerlo e Clarissa Goenawan rimanda la conclusione all’epilogo, così come aveva cominciato tutto con la profezia acquatica del prologo. I cerchi sulla superficie si espandono e si annullano e Watersong lascia la sensazione di essere prigionieri di una corrente, inafferrabile, intricata e affascinante.
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