Sullo sfondo del Regno Unito degli anni settanta, “un mondo antiquato”, ingessato e decadente, la storia di Box Hill ruota attorno al rapporto tra Colin e Ray. Colin è poco più che un bambino, Ray è un mistero. È il leader indiscusso di una banda di biker, che ha orizzonti e necessità limitate: le moto (inglesi), l’alcol, il poker e il sesso orale, da cui tutto è cominciato. Il nocciolo di Box Hill resta il legame tra Colin e Ray, nonostante le divagazioni di quest’ultimo e il precario equilibrio middle class della sua famiglia. Non è un rapporto paritario, neanche per sbaglio: Colin è soggiogato, per non dire usato, in modo brutale. Ray limita l’uso della parola allo stretto indispensabile, si fa capire soprattutto attraverso l’esperienza gestuale e fisica, anche dal punto di vista sessuale. La violenza della sottomissione è implicita ed esplicita: da parte di Colin c’è un’ambigua forma di accettazione all’interno del rapporto con Ray. Non è soltanto una passiva subordinazione: è un circuito chiuso in cui Colin trova la sua libertà, o almeno una parte della sua personalità, all’interno di una convivenza squilibrata. Il paradosso si trascina per tutto il romanzo: Box Hill è una storia spigolosa e Adam Mars-Jones non fa nulla per renderla più malleabile, mostrando senza pudori tutta la fragilità di Colin e della famiglia compresi gli sviluppi imprevisti che portano a una trama spezzata e in gran parte irrisolta. Tutto si svolge molto in fretta e l’occasione di ripristinare i fatti porta Colin a confessare: “Ho passato un sacco di tempo a ripetermi che su quanto accaduto a Box Hill nel 1975, il giorno del mio diciottesimo compleanno, non avevo avuto alcun controllo. Mi vedevo come uno di quei rapiti che vanno in fissa coi loro rapitori, solo che per via del carisma di Ray era successo tutto molto in fretta”. La scelta della prima persona implica un senso di responsabilità nel coesistere con le conseguenze a lungo termine di un legame tossico, e non potrebbe essere diversamente. Nel rileggerle Adam Mars-Jones alias Colin arriva al punto di ammettere che “prima o poi dovevo affrontare il brivido e il pericolo. Era solo questione di dove e quando”. Quasi per una legge del contrappasso nei confronti del brutale passato trascorso con Ray, Colin non guida né le moto (che nel frattempo sono diventate giapponesi), né l’auto. Diventerà un manovratore della metropolitana, (“Tutti trovano grottesco che ogni santo giorno affidino un treno a uno senza patente. La mia risposta è: sono competenze diversissime. I treni non devono superare rotatorie”) da dove ha una particolare visuale sui tentativi di suicidio, un pensiero ricorrente che lo riporta al senso di inadeguatezza vissuto con Ray. Nello sviluppo dritto e lineare come un binario, Adam Mars-Jones riporta ogni cosa con uno stile asciutto, essenziale, che si adatta alla perfezione al senso doloroso di Box Hill. Le ferite emergono con chiarezza, se non proprio con sincerità, ma manca qualcosa, forse una definizione finale o un’armonia complessiva. Di sicuro è un romanzo scomodo, irto di domande, e di questi tempi non è poco.
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