Siamo del 2030 (non manca molto) e l’America è stata evacuata un secolo prima in seguito alla crisi climatica ed energetica che l’ha travolta. Una missione partita dall’Europa su un veliero, l’Apollo, per verificare le condizioni del continente è attirata dal luccichio sulla East Coast. Quando sbarcano, l’oro visto sulla costa si rivela un miraggio di sabbia e ruggine, e, a una prima ricognizione, “non ci sono indigeni, né traccia di radioattività nel raggio di cento miglia” e il rischio “più grande è di sbattere contro un’auto parcheggiata”. La statua della libertà è affondata. New York è travolta da un’arida distesa di nulla. Anche se non hanno ancora trovato conferma, almeno nelle dimensioni apocalittiche di Hello America, le previsioni di Ballard restano come campanelli d’allarme che qualcosa non sia andato per il verso giusto, a partire dall’ipotesi della desertificazione. Per l’equipaggio dell’Apollo, come per i pellegrini del Mayflower a suo tempo non resta che il “movimento, ecco cos’era l’America, che esprimeva, la sua fiducia in se stessa”, e siamo soltanto all’inizio. È un viaggio verso l’interno, come redivivi pionieri lungo file interminabili di rottami (frutto del collasso di una società basata sulle auto e sul traffico) e incontrando frazioni di un popolo semianalfabeta che ha preso il nome di prodotti e di insegne. Tutto intorno sono rimasti cactus, yucca, artemisia e dune che si perdono oltre l’orizzonte. Da bere è rimasto soltanto l’alcol abbandonato nei centri commerciali e l’idea degli Stati Uniti in polvere e delle istituzioni svuotate va inquadrata nel periodo dell’apparizione di Hello America, nel 1981, all’apogeo della guerra fredda quando i progetti di vettori nucleari sempre più distruttivi partirono per la tangente come succede un po’ a tutti in questo romanzo. Tra missili Titan e Cruise, elicotteri senza pilota (che anticipavano gli attuali droni), alianti di cristallo e macchine a vapore in uno scenario in costante mutazione, Hello America è abbastanza caotico, con una sequenza finale degna di un film d’azione di terza categoria. Detto questo, Ballard allinea una lunghissima teoria di miti che vanno a comporre un quadro fluttuante e irriverente di “un’America impazzita”. L’equipaggio dell’Apollo si divide, si scontra (il capitano, Steiner, sparisce), subisce perdite, ma decide di arrivare a Washington e da lì in un susseguirsi di incontri, cominciano a pensare che “determinate cose andavano fatte, riti di passaggio in preparazione della loro effettiva partenza”. L’imperativo è guadagnare terreno, e tutti concordando, chiedendosi: “Sì, ma verso dove?”. La domanda è pleonastica, la direzione è ancora a ovest dove, al contrario, è tutto una giungla ed è soltanto una prima, palese contraddizione. Il trambusto cresce per gradi, riserva una sorpresa dopo l’altra e le varie compagnie di sbandati, altrettanti cliché sociali irrisi da Ballard, si presentano in forme picaresche. Arrivata a Las Vegas, la composita spedizione scopre che l’autoproclamato presidente degli Stati Uniti è Charles Manson e sta giocando con una roulette nucleare che segnerà i destini delle città americane. Tra proiezioni, ologrammi e robot con le sembianze di Frank Sinatra, Dean Martin, Judy Garland, Bing Crosby e dei precedenti presidenti, Hello America si via via ingarbugliando, anche se alcune immagini risaltano, nel delirio generale, più di altre. Nella parodia complessiva, un po’ fumetto, un po’ serie di sogni (come direbbe Bob Dylan, citato fin dall’inizio), la metafora viene svelata quando Ballard scrive che “servono gli orpelli del potere inerenti al potere stesso per legittimarlo” e non c’è dubbio che Hello America nella sua folle lucidità sappia cogliere il valore ultimo delle immagini, a partire (e per concludere) con John Wayne che “a noi può parere una barzelletta, invece è il cuore di tutto quanto”, ed è davvero così. Ma più di tutto dovrebbe far riflettere il fatto che l’altro Wayne, il protagonista di Hello America, è un clandestino che nella terra della libertà e nella patria dei coraggiosi si ritrova in mezzo a una specie di guerra civile con l’ennesimo dottor Stranamore pronto con il dito sul bottone.
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